di Luca Chierici foto © Fabrizio Sansoni
All’interno delle varie possibili direttrici che possono essere seguite nella programmazione di un festival lirico-strumentale così complesso e di lunga tradizione come è quello della Valle d’Itria a Martina Franca, un posto particolare quanto pochissimo frequentato è rappresentato dalla riproposta di titoli del primo ottocento italiano caduti nell’oblio. A dire il vero, nella storia del Festival, nato nel 1975, ben pochi furono i momenti di questo tipo, se si eccettuano quelli dedicati a qualche titolo del primo Mercadante o al Mayr della Medea in Corinto. Nulla, fino a quest’anno, di Vaccaj o di Zingarelli, ad esempio. Eppure vi fu un momento in cui il nome di Nicola Vaccaj (1790 – 1848) era paragonato a quello di Donizetti, e Rossini lodava senza mezzi termini l’uso squisito delle voci e l’invenzione melodica di un musicista che verrà poi ricordato quasi solamente per quel “Metodo pratico” di canto che si usa ancora oggi. Titoli quali Zadig ed Astartea, il Saulle, I solitari di Scozia, Giovanna d’Arco o Le fucine di Norvegia se ne stanno ancora ben nascosti nelle biblioteche di Napoli o di Milano e solo raramente qualcuno di questi viene fatto oggetto almeno di una specifica edizione discografica. Eppure “Giulietta e Romeo” (1825) fu una delle opere di Vaccaj più amate dal pubblico e la famosa cavatina “Ah, se tu dormi svegliati” che l’affranto Romeo canta di fronte alla immobile Giulietta faceva parte delle pièces variate tra gli altri da pianisti di grido come Herz e Hünten. E un altro importante pianista-compositore italiano, Stefano Golinelli, dedicò a Vaccaj una pregevole raccolta di dodici Melodie caratteristiche per pianoforte solo.
Nell’introduzione al Metodo pratico di canto italiano, Vaccaj espone il suo credo, che è stato poi quello di generazioni di musicisti del nostro paese. Quello che oggi qualcuno potrebbe catalogare nel novero dei luoghi comuni sull’arte italiana, ma che è alla base di tutta una tradizione incancellabile, è citato all’interno di sentenze quali “Non v’ha dubbio che il Canto Italiano pel gran vantaggio che riceve dalla lingua stessa, superiore nella musica a qualunque altra, è quello da cui deve cominciare chi desidera ben cantare” . E la novità del Metodo, che consiste anche nell’avere scelto testi del Metastasio al posto di semplici “sillabe vuote di senso” fin dai primi esercizi sulle scale, per passare poi ai “salti”, alle “sincopi”, alle “volate” fino ad arrivare ai vari tipi di abbellimento e ai recitativi, fu apprezzata ovunque.
Giulietta e Romeo era stata riesumata nell’ottobre del 1996 a Jesi senza che si desse seguito alla proposta di altri lavori di Vaccaj. Benvenuta dunque questa impresa martinese, che ha rappresentato sicuramente il momento di maggiore interesse e il risultato più convincente di tutto il festival 2018, in termini di allestimento scenico, resa musicale, scelta di voci adatte allo scopo. Il titolo non rappresenta solamente una rarità da riproporre nel contesto di un festival specialistico: la partitura è ricca di momenti molto felici, sia nelle parti solistiche affidate ai protagonisti che nelle scene d’assieme, contiene raffinati interventi strumentali e si snoda secondo un disegno drammatico-musicale di grande efficacia.
La guida musicale è stata affidata a un direttore sensibile e capace come Sesto Quatrini, che ha condotto in porto un’impresa non facile, come è sempre il caso di una riesumazione di un titolo stilisticamente affine a quelli dei grandi operisti dell’epoca ma che nasconde al suo interno qualità e specificità di non scontato dominio. Sostegno alla sua idea interpretativa è stata la validissima Orchestra dell’Accademia del Teatro alla Scala. Alla compagnia di canto era richiesto non solo di calarsi in un contesto differente dal solito, con pochi o punti esempi da seguire, ma anche di evocare almeno alcuni aspetti di una vocalità scomparsa e il richiamo a figure del belcanto entrate nella leggenda. Leonor Bonilla, soprano “leggero” in linea con il carattere del personaggio di Giulietta, ha saputo prestare la propria voce per delineare i contorni di un ruolo non facile da sostenere in scena, così come Raffaella Lupinacci, contralto che prestava la voce a Romeo ha sostenuto efficacemente un carattere che forse avremmo desiderato vocalmente più “scuro”. Capellio stilisticamente ineccepibile è stato Leonardo Cortellazzi, mentre l’esperta Paoletta Marrocu ha dato vita alla straziante figura di Adele, che segue le vicende della figlia Giulietta quasi incurante dei risvolti politici che contrappongono le due famiglie dei Montecchi e dei “Cappelletti”. Christian Senn dava autorevole registro al ruolo di Lorenzo, che nel libretto era spogliato di dignità ecclesiastica, e Vasa Stajkic era un convincente Tebaldo.
Al confronto con la sperimentalità del Rinaldo haendeliano e del titolo di Scarlatti, la messa in scena di questo Giulietta e Romeo seguiva direttrici meno insolite, e ciò si è tradotto in un notevole vantaggio per il pubblico, che ha goduto di uno spettacolo lineare e poetico assieme. La regista Cecilia Ligorio e la scenografa Alessia Colosso hanno descritto con pochi tratti efficaci una trama che del resto era ben nota a tutti gli spettatori e che non incontrava tutte le complicazioni e gli artifici che avevano reso complesso l’allestimento degli altri due titoli già citati. Facendo tesoro della struttura già presente nel cortile del Palazzo Ducale di Martina Franca e con l’aggiunta di pochi ma efficaci elementi architettonici (come la sempre presente “tomba” di Giulietta e il famoso balcone che permette l’incontro tra i due amanti) si è così dato vita a una rappresentazione di gusto semplice e raffinato assieme. I costumi di Giuseppe Palella hanno fatto il resto, con una alternanza tra il nero luttuoso dei Capuleti e il bianco dei Montecchi. Preziosa, infine, la presenza dei mimi che hanno discretamente commentato i momenti più carichi di tensione.