di Luciana Galliano foto © Ruth Walz
Dando seguito ad una bellissima edizione curata vent’anni fa dalla compianta Luciana Pestalozza, che fece conoscere il compositore ungherese György Kurtág (1926- ) anche in Italia, il Festival Milano Musica dedica quest’anno il biennale portrait monografico proprio a Kurtág e al suo particolare rapporto con Samuel Beckett. Sempre più e positivamente il Festival dialoga con le tante istituzioni musicali e culturali milanesi, in una proficua collaborazione che ha animato la città dal 20 ottobre al 26 novembre con un fitto programma di concerti, incontri, lezioni e, a completare il quadro Kurtág-Beckett, il Fin de Partie dello scrittore irlandese nella versione teatrale di Glauco Mauri e nella versione operistica, tanto attesa, che il compositore ungherese ha composto su alcune scene personalmente scelte del lavoro drammaturgico.
Noi abbiamo seguito l’intensa settimana dal 18 al 24 novembre, e comincerei a riferirne proprio dall’opera, vero clou della manifestazione. Unico lavoro operistico del compositore, parto che ha richiesto lunghi anni di gestazione, è stata recensita ottimamente da Luca Chierici su queste pagine; vorrei aggiungere qualche considerazione perché mi è davvero sembrata epitome del pensiero musicale di Kurtág. Non solo Chierici ha trovato un che di irrisolto nella versione operistica del lavoro beckettiano, altre voci autorevoli hanno espresso perplessità – accanto alle voci entusiastiche, cui mi associo senza meno. Forse alla quarta e penultima rappresentazione milanese – dopo le prove e la generale che si sono svolte a Budapest, poichè il compositore più che novantenne non si è sentito di affrontare una trasferta milanese – l’intera, complessa texture musicale ha trovato la “rotondità” e l’originale evidenza che hanno convinto me – insieme a molti altri e a molto pubblico: è vero che si sono viste defezioni dopo la prima ora ma, alla fine, gli applausi sono stati lunghi e calorosi.
L’incredibile meticolosità della musica, che vessa i peraltro adoranti interpreti conquistati dalla sincera e umana creatività del compositore, richiede sicuramente anche all’ascoltatore una concentrazione quasi spasmodica, ripagata però da una ricchezza musicale insieme essenziale e lussureggiante, che carica ogni suono di un enorme quantum di significato. Non è soltanto la miracolosa gamma di timbri, né il ricorso ad attitudini musicali le più disparate – non escluso un cordiale uso di materiali pop, mediati dalle fisarmoniche russe e dal cimbalom, strumento molto presente in quest’autore di pretta formazione ungherese. È la conquista di un’astrale naturalezza nelle linee del canto, per impervie che possano essere, quanto mai beckettiane e aderenti al frammentato francese dell’originale. È il tratteggiare un apparato strumentale incredibilmente ricco di tensione gestuale (gli esplosivi impasti dei fiati, le linee esilissime e i silenzi), luci improvvise, allarmanti contrasti drammatici e tensione espressiva che riesce a farsi pienamente carico della narrazione drammaturgica (vera sfida per un testo beckettiano!) Non ricordo altre/oltre due ore di ascolto attento, di piacere senza un momento di incrinatura – forse solo con un altro beckettiano di ferro, Morton Feldman, con cui peraltro Kurtág non condivide l’abbandono alla desolazione: i personaggi beckettiani mantengono nella musica di Kurtág una forsennata, sofferente umanità. Molto evidente nel personaggio di Nell, il contralto Hilary Summers (sensibile interprete anche nel concerto dell’Ensemble Bernasconi il 21), accanto all’interpretazione sorprendentemente lirica del Nagg di Leonardo Cortellazzo; molto tormentata con passaggi quasi woyzeckiani nel servo Clov, Leigh Melrose, accanto alla fredda disperazione dell’acclamato protagonista Hamm, Frode Olsen. Ottimo lavoro ha fatto l’orchestra, sotto la direzione di Markus Stenz, e della bella regia sufficientemente ha parlato Chierici.
Questa estesa partitura, da cui emergono peraltro molte tenui(ssime) o fragorose voci soliste, sembrerebbe a tratti con il suo cameristico dettaglio confermare quanto diceva l’amico Luigi Nono: «György teme l’orchestra». In effetti le partiture per orchestra, compresi i lavori incompiuti, possono praticamente contarsi nelle dita di una mano, ma Stele (1994), composta su richiesta di Claudio Abbado, è un lavoro di tale dilatata evidenza che si direbbe di un sinfonista consumato. Con un gesto tipico del compositore l’elemento d’esordio è strutturale: un glissato ai tromboni sopra una dissonanza dell’orchestra dall’intonazione oscillante è una sorta di gesto rituale da cui prolifera la caratteristica riconoscibilità delle figure di Kurtág, sì che alcuni ritorni hanno un ruolo sia di lancinante memoria che di pacificazione; vi si si coagulano altre memorie storiche fondamentali per Kurtág fra cui evidente quella beethoveniana. Ma molto bene l’esecuzione di questo brano, pensato per i Berliner Philarmoniker e eseguito il 19 dall’Orchestra RAI diretta dal mitico Heinz Hollinger, è stata affiancata al Concerto per orchestra di Béla Bartók e a quello per pianoforte di Ligeti, rendendo evidente l’appartenenza ad una scuola ungherese di specifica loquela ove Bartók è il genitore (dice Kurtág: “La mia lingua madre [modale] è Bartók”,) e Ligeti un fratello un po’ burlone. Il bravissimo Pierre-Laurent Aimard ha eseguito con altrettanta implacabile precisione alcuni brani pianistici di Kurtág di recente composizione (2011-17), forse i meno convincenti di tutto quanto ho sentito – come se il passo del pensiero si fosse fatto, nella meticolosità, troppo lento. Scrosci di applausi.
Concerti bellissimi anche il già citato dell’Ensemble Bernasconi dell’Accademia della Scala, diretto da Arnaud Arbet, Korrepetitor per Fin de Partie – tutto il lavoro compositivo e interpretativo di Kurtág è legato a precise relazioni umane. E storiche: il concerto del 21, in cui i giovanissimi interpreti dell’accademia hanno ricordato com’è bello fare musica con l’entusiasmo della scoperta, ha associato ai Tre pezzi – Tre altri pezzi (1996) per clarinetto e cimbalom, finemente cesellati e cantanti, Dérive I (1984) di Pierre Boulez, i Trois poèmes de Mallarmé di Ravel e tre brani di Stravinskij, delineando ulteriormente il mondo espressivo cui si ascrive il compositore ungherese. La concentratissima Hilary Summers ha poi eseguito un breve brano di Kurtág in prima assoluta, composto per l’occasione e per l’Ensemble. Un concerto che ho amato è stato quello monografico del 18, al delizioso Teatro Gerolamo. Sophie Klussmann soprano, Nurit Stark violino (che suona benissimo scalza come Kopatchinskaja), Peter Riegelbauer contrabbasso e Luigi Gaggero cimbalom – tutti incredibilmente bravi e preparati – hanno eseguito alcuni dei più bei brani cameristici del compositore, fra cui ricordo le Sette canzoni op. 22 (1981), gli Otto duetti (1981) per violino e cimbalom, 5’ di impressionante duttilità e forza espressiva, e alcuni brani per violino solo di acuta capacità rappresentativa: uno per tutti il sorridente Perpettum Mobile. Hommage à John Cage.
Molta aspettativa c’era per il concerto del 23 all’Hangar Bicocca, con il trio di percussioni Zaum e Salome Kammer voce e la realizzazione del live electronics di Daniele Ghisi – a cui era stata affidata anche una commissione Milano Musica: ne è risultato un brano un po’ inutilmente magniloquente di 30’, This is the game. Accanto a Ghisi e all’altra prima esecuzione italiana, un brano dell’americano Richard Barrett, il Tune (1965) del vulcanico Mario Bertoncini classe 1932 suonava originale e affascinante, grazie anche alla bravura del trio.
Ricordo ancora il concerto della PYO, orchestra di bambini sino a 14 anni che ha eseguito 34 dei Játékok-Games, sorta di diario spirituale per pianoforte trascritto dal direttore Olivier Cuendet, altro intimo collaboratore di Kurtág. L’intero Festival è stato illuminato da questa sensazione di intimità, condivisione, gentilezza che anima la musica di Kurtág; avevo sottolineato nella biografia per il catalogo dell’opera l’appartenenza di Kurtág ad un “altro mondo”, il blocco sovietico. Forse il relativo isolamento gli ha permesso di sviluppare il proprio originale linguaggio, in una totale e abbagliante libertà intellettuale che con molti tormenti e miracolose intuizioni produce una musica in cui si può, come dice Boulez con un banale ossimoro, “lasciarsi conquistare da un mistero fatto sia di evidenza che d’inesplicabile”.
18-24 novembre 2018 György Kurtág. Ascoltando Beckett – XXVII Festival Milano Musica