di Luca Chierici foto © Richard Avedon
Mitsuko Uchida ha costruito nel tempo una immagine di pianista lontana da atteggiamenti divistici: dedita allo studio dei classici (Mozart, Beethoven e Schubert in particolare), cresciuta alla scuola di grandi figure del concertismo occidentale come Wilhelm Kempff, orientata spesso alla collaborazione nel campo della musica da camera, la pianista giapponese-austriaca residente a Londra da oramai molti anni ha tra l’altro sempre intrattenuto con il pubblico un rapporto molto cordiale, diremo quasi di affetto contraccambiato. È a volte difficile seguire lo sviluppo di carriera di un artista quando le sue apparizioni in concerto diventano rare o esistono dei periodi più o meno lunghi di assenza che lo tengono lontano dal pubblico. A Milano si era ascoltata la Uchida diverse volte per le Serate Musicali (dal 1983 al 1997) e per la Società del Quartetto (dal 2001 al 2006) ma quasi tredici anni di lontananza imponevano l’altra sera l’obbligo della partecipazione a un nuovo appuntamento, gestito appunto dal “Quartetto” e particolarmente interessante perché dedicato per intero al comparto sonatistico schubertiano. A dire il vero la Uchida ha in programma per questa stagione in varie parti del mondo un doppio appuntamento con una scelta di sonate del grande viennese e ci siamo dovuti accontentare di una scelta di tre numeri che andavano a formare un impaginato corposo, difficile sia per l’artista che per il pubblico.
Il ricordo che abbiamo della Uchida concertista è indubbiamente positivo, anche se in tempi oramai lontani la sua figura non si poteva collocare in maniera assoluta tra quelle che dominavano l’agone pianistico. Trent’anni fa la Uchida si presentava a Milano con un programma che prevedeva tra le altre cose la Sonata op. 58 di Chopin e sei Studi di Debussy eseguiti con partecipazione ma con approccio tecnico non entusiasmante, almeno per gli standard di allora. Il suo Mozart appariva invece molto controllato e di parca espressività, sempre all’interno di un contesto in cui in città si ascoltavano i mirabili recital di un Gulda. Come a dire che la presenza di un artista e il suo impatto con il pubblico vanno anche rapportati al confronto con quanto si può alternativamente ascoltare in un ben determinato periodo.
In questi ultimi anni era più facile riascoltare la Uchida seguendo certe trasmissioni radiofoniche dal vivo, in cui la pianista si esibiva a fianco di direttori importanti come Muti, Jansons, Davis, Rattle in un repertorio che puntava sui Concerti di Beethoven, qualcosa di Mozart o l’amato Concerto di Schoenberg. Oppure si dedicava saggiamente a qualche bell’intervento all’interno di complessi cameristici in Mozart, Schubert e ancora Schumann. Più rari i recital diffusi via etere, con l’ultimo Beethoven da Parigi e Salisburgo che mostrava un ulteriore approfondimento delle sue qualità musicali. Di recente la Uchida sembra come rinata a dispetto del naturale procedere degli anni (oggi settantuno): la scorsa stagione si sono potute ascoltare ad esempio alcune belle esecuzioni del Concerto di Schumann (tra gli altri con Dudamel) e oggi questo importante ritorno alla Società del Quartetto ha confermato la vitalità, il gusto, la comunicativa di questa artista. Più che un suono naturalmente “bello”, la Uchida possiede in alto grado una qualità che oggi sembra quasi scomparsa nelle giovani generazioni di pianisti, ossia la capacità di calibrare i piani sonori secondo differenti gradazioni in vista di una più completa definizione del discorso musicale. Non si tratta di un vezzo fine a se stesso, bensì di uno strumento utile a meglio definire il discorso musicale anche sul piano narrativo. Strumento prezioso in questo caso per differenziare il discorso schubertiano che è spesso complesso, imprevedibile anche nelle sue sfumature armoniche come si è potuto ascoltare ad esempio nella Sonata D 840 (la cosiddetta “Reliquie”) che conta solamente due movimenti compiuti. La Uchida ha scelto di non eseguire i frammenti dl Minuetto e del Rondò, tantomeno di proporre i completamenti proposti da numerosi autori, tra i quali vi è anche uno schubertiano d.o.c. come Paul Badura-Skoda. Si tratta di una decisione più che giustificabile, anche se nel caso delle grandi composizioni incompiute fa sempre un certo effetto ascoltare il momento in cui il segno del musicista si interrompe, e lo sanno tutti coloro che hanno avuto l’opportunità di cogliere con emozione l’arresto dell’ultima parte dell’Arte della Fuga di Bach (e che emozione, quando agli archi vi erano i componenti del Quartetto Italiano, con Paolo Borciani già gravemente ammalato, in un indimenticabile pomeriggio di trentacinque anni fa a Bergamo).
Nella prima parte della serata la Uchida aveva proposto la bellissima Sonata in la minore D 537 (una delle tre scritte da Schubert in questa tonalità) e lo aveva fatto con decisione e assenza di retorica. In questo caso vi è però nella storia dell’interpretazione un confronto di altissimo livello, quello di Benedetti Michelangeli, che la pianista non è riuscita a farci dimenticare. Tranne forse che in un momento specifico, quando la Uchida ha proposto una leggera variante al testo che a mio parere ha sottolineato il vero significato dell’incipit del terzo movimento. Si tratta di una passaggio di quattro battute in cui dal “la” iniziale si procede attraverso due frammenti di scale ascendenti per approdare a un “fa” naturale. Eseguito in tempo stretto, come fanno tutti i pianisti, si perde un poco della tensione armonica prevista dall’autore (il passaggio è ripetuto ben tre volte all’inizio del Rondò, ancora tre volte nel secondo ritornello e due volte nella coda, denunciando un importante valore strutturale in seno alla composizione) ma la Uchida ha scelto di incrementare impercettibilmente la velocità della terza misura con un effetto di straordinario impatto. Qualche ruggine nei passaggi più scomodi non ha compromesso più di tanto una esecuzione esemplare soprattutto dal punto di vista narrativo e ha aperto la strada, dopo la presentazione della Sonata D 840, al lungo cammino proprio dell’ultima sonata schubertiana.
La D 960 è un lavoro che per vari motivi è sempre molto difficile da sostenere, sia discograficamente che a maggior ragione in pubblico. Si tratta di una sonata di una certa lunghezza (“divina” o meno !) soprattutto se eseguita osservando tutti i segni di ritornello, falsamente risolvibile solo sul piano della cantabilità, della “melodia lunga” tipica di Schubert, e allo stesso tempo improponibile pensando solamente all’impianto strutturale. Insomma una sorta di labirinto dal quale risulta spesso impossibile uscire indenni mantenendo viva l’attenzione del pubblico. La Uchida, pur operando una scelta di tempi che eguagliava quasi quella di Richter (47 minuti) notoriamente additata come limite estremo, giocando anche sulla differenziazione delle sonorità cui abbiamo già accennato ha portato a compimento in maniera eccellente la difficile sfida ottenendo un risultato giustamente premiato dall’applauso e si è congedata dal pubblico con una sarabanda bachiana, dalla quinta suite francese.