di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
C’è voluta l’esecuzione di un capolavoro mozartiano appartenente al comparto della musica sacra, la grande Messa in do minore K 427, e un incontro introduttivo tra Zubin Mehta e il Cardinale Ravasi sui temi comuni tra Zoroastro, il cattolicesimo e la musica (per chi è credente in almeno due tra queste categorie dello spirito) per predisporre lo spettatore a un ascolto rappacificato con le convenzioni mozartiane più classiche e lontane da certi eccessi che si erano sperimentati la sera prima con una fin troppo turbinosa lettura di Idomeneo da parte di Diego Fasolis. Sì, d’accordo, i contesti musicali erano assai differenti e nessuno vuole togliere a Idomeneo il peso di una carica espressiva assoluta che condensa tutto l’amore di Mozart verso il teatro e l’operazione unica che egli riesce a compiere nel rivisitare da par suo tutta una gloriosa tradizione precedente mirata all’esaltazione della cosiddetta “opera seria”. Ma Idomeneo, opera difficilissima da dirigere, cantare, mettere in scena, alla Scala ha vissuto una (tardiva) storia di esecuzioni che non ha mai portato a dei risultati in assoluto convincenti. La produzione di quest’anno è nata un po’ zoppa a causa della rinuncia alla bacchetta da parte di Cristoph von Dohnany e al conseguente nuovo incarico conferito a Diego Fasolis, che si è trovato a studiare e “digerire” una partitura così complessa in relativamente breve tempo. Siamo sicuri che parte delle difficoltà che si sono sperimentate alla “prima” verranno mitigate nel corso delle successive repliche ma ciò non toglie che alcuni dettagli abbiano disturbato non poco l’ascolto e la visione di questo capolavoro il 16 Maggio scorso.
Innanzitutto la pratica strumentale e il piglio metronomico che sono risultati da una mescolanza tra classico e neo-barocco, col risultato che dell’Ouverture si ascoltavano quasi solamente i salti tonica-dominante intonati da trombe e timpani (mescolanza timbrica che spesso sovrastava gli archi anche in tante altre situazioni). Poi l’errore che già aveva portato ai dissensi per la vecchia edizione con Gavazzeni e Damiani del 1984, ossia i rumori di scena di vento e mare che avevano addirittura coperto il suono dell’orchestra: non è per insistere su un argomento che oggi può apparire secondario, ma mai le esigenze della regìa debbono sovrastare quelle di un ascolto perfetto della musica e del testo. Regìa che peraltro è risultata quasi inesistente per tutta la durata dell’opera, con i cantanti che vagavano di qua e di là e che soprattutto nel primo atto non sapevano veramente dove andare. Anche perché qualcuno si era pure dimenticato la parte e guardava disperatamente alla buca del suggeritore, per l’occasione camuffata da un conchiglione che fa parte della tradizionale attrezzeria per Idomeneo.
Le scene di Volker Hintermeier erano invece ben trovate, ma la grande testa del Minotauro e lo scafo gigantesco della nave che fa naufragio diventavano incombenti dall’inizio alla fine, e avevi voglia a far ruotare continuamente il tutto a mo’ di giostra. Altri particolari, come le teste scheletrite di ovini issate su pertiche, richiamavano allo spettatore scaligero il quarto atto di una Manon appena ascoltata, come se si fosse tentato inconsciamente un parallelo tra l’isola di Creta e il deserto americano con i resti di animali morti a causa della siccità. Ultimo particolare assai fastidioso (che si ripete in molte regìe e scenografie, purtroppo) era quello delle luci accecanti che talvolta emanavano bagliori dagli occhi del mega-minotauro, costringendo il pubblico quasi a indossare delle lenti da sole.
All’interno di questo contesto, i protagonisti vocali hanno tardato quasi un intero atto a carburare come si doveva e la prima entrata di Julia Kleiter (Ilia) è risultata piuttosto sottotono. La Kleiter si è però via via riscattata dopo il lungo recitativo e ha maggiormente convinto nel bellissimo «Padre, Germani». Di contro l’Idamante di Michèle Losier ha ricevuto fin dall’inizio applausi convinti, così come è stato per la veemente (fin troppo) Elettra di Federica Lombardi con la sua prima “aria di furore”. Il clima plumbeo di inizio atto viene rischiarato dal sole dopo l’approdo della nave che reca con sé Idomeneo, ma lo stesso Re inciampa come già detto nei recitativi, e per fortuna è ancora la Losier a risollevare le sorti con la sua aria di straziante dolore per l’apparente disinteresse del padre nei suoi confronti. Ed è il Coro, come al solito magnificamente guidato da Casoni, ad avere la meglio in questo finale primo. Le cose sono andate molto meglio negli atti successivi anche se la prima comparsa di Arbace non ha convinto del tutto il pubblico (molto più a proprio agio è stato Giorgio Misseri nel seguito). E mentre Ilia ci sembrava piuttosto piagnucolosa nel suo «Se il padre perdei», l’Idomeneo di Bernard Richter si riscattava nel famoso «Fuor del mar». Ma gli applausi, per quanto possibili nell’economia dello spettacolo, non si sono uditi nelle due scene d’assieme che costituiscono i punti d’accumulazione di tutta l’opera e allo stesso tempo due momenti tra i più alti del teatro musicale di tutti i tempi, ossia il terzetto «Pria di partire» dell’atto secondo e il quartetto dell’atto terzo «Andrò ramingo e solo». Si consiglia a questo proposito un corso informativo accelerato rivolto al pubblico: non c’è di peggio che trovarsi di fronte a un capolavoro e non accorgersene. Lo spettacolo è comunque piaciuto e si è andato consolidando in un crescendo di consensi, soprattutto per la Lombardi, Elettra sempre più coinvolta nel proprio ruolo, e con applausi al termine dell’inserimento dei balli (peraltro di coreografia non certo notevole) dopo il finale. La risposta complessiva del pubblico è stata più che soddisfacente ma al termine non vi sono state uscite singole e si è assistito a una chiusura di sipario piuttosto affrettata (ma l’ora era tarda).
Un altro Mozart, come si diceva, è quello che è risuonato nella stessa sala la sera successiva. E si tratta pur sempre di un Mozart a suo modo ancora sperimentale, quello di una Messa lasciata incompiuta dove non si sa se ammirare di più il compositore alle prese con le convenzioni contrappuntistiche delle grandi fughe di stampo barocco o quello che sperimenta le incredibili mescolanze dei timbri dei due soprani (la seconda era in realtà un mezzo) che si emulano a vicenda all’interno di duetti a dir poco splendidi. Mehta dirigeva la Messa per la prima volta ma lo ha fatto come se avesse nel cuore la partitura da sempre. Di buono spessore i cantanti, con particolare menzione per le due voci femminili di Brenda Rae e Miah Persson.