di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Si rischia di essere patetici, quelle rare volte nelle quali un’opera o un oratorio di Händel vengono eseguiti in Italia, nel ribadire quanto poco questo sommo musicista venga eseguito nelle nostre terre, immemori quasi dei soggiorni italiani del Sassone, della sua completa assimilazione della nostra opera seria e delle successive trasformazioni inglesi che portano fino alla comparsa di questo Semele. Un grande capolavoro che tra l’altro ha stimolato le diatribe tra musicologi, accaniti per anni nell’inutile tentativo di precisare il comparto entro il quale il titolo debba essere collocato, appunto per le sue caratteristiche ibride di opera (italiana e inglese) e di oratorio. Un lavoro ‘amoroso’ dall’inizio alla fine, tanto che i personaggi coinvolti, soprattutto il sommo Giove, qui raffigurato da un giovane di ammaliante bellezza, sembrano essere letti in quella chiave più che soddisfare alle descrizioni mitologiche d’uso, forse con la sola esclusione di una Giunone gelosissima e alquanto potente. Dunque Semele poggia su un libretto di William Congreve, ispirato a Euripide e Ovidio, e narra dell’amore della figlia di Re Cadmo di Tebe nientemeno che per il grande Zeus. Semele ambisce all’immortalità e Giunone, che fa di tutto per togliersela dai piedi, consiglia alla giovane, sotto mentite spoglie, di provocare il bel Dio a mostrarsi in tutta la sua potenza. La poverina perirà miseramente incenerita da tuoni fulmini e saette. Il soggetto è complicato dalla presenza di altri personaggi (Atamante, innamorato di Semele e a propria volta corteggiato da Ino, sorella della stessa) ma alla fine il contesto diventa pur sempre un espediente per porre in risalto una musica meravigliosa, i caratteri vocali altrettanto meravigliosi dei protagonisti, il Coro.
Eseguito in forma di concerto, o meglio in una forma mista che prevede movimenti scenici e un minimo di attrezzeria, Semele è approdato alla Scala quasi di straforo, come serata benefica a favore dell’Opera San Francesco per i Poveri, nell’esecuzione degli English Baroque Soloists e del Monteverdi Choir diretti da John Eliot Gardiner (il cui understatement è proporzionale al valore dei risultati raggiunti) e da un manipolo di cantanti bravissimi ed entusiasti: la protagonista, Louise Adler, il Giove di Hugo Hymas, la Giunone (e Ino) di Lucile Richardot, l’Atamante di Carlo Vistoli, il Cadmo di Gianluca Buratto e l’Iris di Emily Owen. Non staremo qui a sottolineare come, al di là di qualche incertezza o di qualche atteggiamento vocale che, visto nell’ottica della tradizione operistica italiana e del suo contesto interpretativo, potrebbe sembrare a tratti censurabile, l’operazione che ha dato luogo a questo Semele risulti ben più credibile degli analoghi tentativi che la Scala va programmando in questi anni nella speranza di recuperare decenni di mancata (o scarsissima) attenzione nei riguardi della musica di Händel. Questi complessi inglesi hanno Händel prima di tutto nel cuore e possono contare ovviamente su diversi secoli di tradizione esecutiva che hanno portato ai risultati applauditissimi dell’altra sera. Si vorrebbe più Händel anche alla Scala, ma fatto in questo modo, senza che per forza di cose le produzioni debbano passare al setaccio delle spesso ingombranti convenienze teatrali nostrane. E, lo ripetiamo, il successo di questo Semele, sfuggiva a gran parte delle logiche che stanno alla base della programmazione ‘ufficiale’ del nostro Teatro.
Eseguito per la prima volta il 10 Febbraio 1744 al Covent Garden, e quindi appartenente all’ultima, grandiosa stagione della creatività händeliana, Semele è pieno di momenti di grande teatro e di musica straordinaria, dal quartetto vocale dell’atto primo, alla caratterizzazione del «Sonno» con registri gravi che ci portano direttamente al Sir Morosus della straussiana Schweigsame Frau, ai virtuosismi di Atamante. Chissà come mai, al termine dell’ascolto di queste opere o oratori, si esce dalle sale più leggeri e contenti, elettrizzati dai contagiosi ritmi barocchi (nota giustamente Paul Henry Lang che, per Händel, «la fuga è essenzialmente un pezzo di danza») ammaliati dai momenti di più raccolta meditazione strumentale e vocale. E più che mai convinti che questo repertorio debba riconquistare il suo peso specifico anche da noi, come componente irrinunciabile di un tutto.