di Luca Chierici
Al suo terzo appuntamento annuale, il festival Classiche Forme ideato da Beatrice Rana conferma, anzi sembra sottolineare in maniera inequivocabile, un atteggiamento non comune negli artisti, quello di mettere in luce nel programma della serata colleghi e amici che riscuotono un successo esemplare. Quasi la decisione presa a tavolino di non voler trasformare l’evento – che scuote un’estate salentina un poco sonnacchiosa – in una glorificazione personale. Beatrice Rana non ne ha bisogno, acclamata com’è per tutto l’anno sui palcoscenici internazionali, e il concetto stesso di musica da camera è tale per cui ogni componente del mosaico ha un valore e un significato pari agli altri, in un desiderio comune di “fare musica” assieme. Per ragioni di opportunità geografica, quest’anno il Festival ha abbandonato la suggestiva cornice del frantoio ipogeo di Palazzo Bacile a Spongano, e molti hanno ricordato con un pizzico di nostalgia quella location lontana dal contesto leccese, che in questa stagione è preso d’assalto dai turisti. E alla decisione di trasloco non è stata certo estranea una opportunità di sponsorizzazione concessa dalla Regione Puglia nella persona dell’Assessore regionale al Turismo, Loredana Capone, che era significativamente presente alla breve cerimonia di inaugurazione del Festival tenuta nei pressi di un uliveto vicino a Gallipoli qualche giorno fa, anche per sensibilizzare la stampa sul grave fenomeno della contaminazione degli alberi da parte della terribile xylella. In quella occasione Beatrice Rana ha fatto risuonare Ravel attraverso le corde di un prezioso Fazioli dalla cassa in legno di olivo, proveniente dalla collezione del famoso costruttore di strumenti di Sacile.
Nel programma delle due prime serate del Festival – svoltosi nella bellissima cornice del chiostro del Seminario in Piazza Duomo – si sono dunque ascoltati impaginati eterogenei (nel primo caso di difficile definizione) che spaziavano da Tosti a Borodin, da Ravel a Franck e a Bartók e coinvolgevano alcune personalità artistiche di spicco. Accompagnato da Beatrice Rana, il baritono leccese Vittorio Prato ha dato voce a un programma raffinato e allo stesso tempo di grande presa sul pubblico: una piccola liederiade che si è spinta fino allo Strauss più famoso di Morgen e Zueignung e che ha citato tre canzoni scritte da Francesco Paolo Tosti su testi inglesi, esempio anche divertente che ha mostrato quanto la cantabilità del compositore riesca persino a sovrastare la metrica anglosassone.
Nella prima parte del programma si era ascoltata la preziosa Sonata per due violini di Prokof’ev (interpreti le soliste Simone Lamsma e Anne Luisa Kramb), forse una scelta piuttosto eccentrica per una inaugurazione della rassegna, la sonata facendo parte del repertorio che nulla concede alla facile comunicatività. Un classico della letteratura per violino e pianoforte, la sonata di Franck, è stata poi presentata sempre da Simone Lamsma, con piglio eroico e cantabilità luminosa, e anche in questo caso Beatrice Rana ci è sembrata di proposito volere rinunciare a mettere in luce una parte pianistica che molti colleghi interpretano con fin troppa veemenza. La seconda serata si è svolta attraverso un programma persino più interessante per almeno due motivi: si è trattato in un caso di una dimostrazione di affetto profondo di Beatrice Rana verso il suo insegnante, Benedetto Lupo, attraverso l’esecuzione di uno dei capolavori della letteratura per due pianoforti, la Sonata K 448 di Mozart, cui forse ha nuociuto l’eccessiva velocità alla quale i due interpreti hanno affrontato l’Allegro con spirito iniziale e in parte l’Allegro non troppo finale. È musica peraltro di grandezza indescrivibile, che si presta a ogni sorta di lettura senza perdere minimamente un fascino che ci ricorda le leggendarie esecuzioni di Mozart e della pianista Josephine von Aurnhammer. Lo stesso duo pianistico ha presentato in chiusura della serata la bella quanto complessa e difficile Sonata per due pianoforti e percussioni di Bartók, pagina nella quale il timbro pianistico viene pensato ogni volta in relazione alle suggestioni degli strumenti a percussione, mentre il linguaggio musicale raggiunge un compromesso ideale tra il sistema tonale classico e un ampiamento armonico di notevole audacia, pur senza andare a sconfinare nella dodecafonia. Notevole interesse desta inoltre l’analisi dell’architettura formale della partitura, che nel primo movimento segue le regole della sezione aurea per quanto concerne le dimensioni dell’esposizione, dello sviluppo, della ripresa e della coda. Esecuzione di grande pregio, alla quale hanno ovviamente contribuito in maniera essenziale i percussionisti Simone Rubino e Andrea Toselli e che ha portato alla rituale ripetizione dello straordinario finale, un bis che abbiamo sempre ascoltato al termine della Sonata nell’esecuzione di tanti artisti famosi. In precedenza – e questo è stato uno degli eventi inaspettati della serata – lo stesso Simone Rubino si era esibito in due momenti estremamente suggestivi, la Water Cadenza di Tan Dun (2000) e Rebonds B di Xenakis (1987-89).
Nel primo caso Rubino, che accompagna la componente diciamo così “tecnica” delle sue performance a una gestualità di grande fascino, ha evocato la straordinaria improvvisazione del compositore cinese Tan Dun di fronte a due contenitori ripieni d’acqua, trasformando in vera e propria musica un apparente gioco casuale di percussione della superficie liquida con le sole mani, mentre il sorprendente pezzo di Xenakis, scritto anche nell’intento di dare l’impressione di una esecuzione da parte di più di uno strumentista, ha scatenato alla fine un lungo applauso liberatorio da parte del pubblico, letteralmente soggiogato dalla bravura del percussionista e dalla inventiva del compositore.