di Attilio Piovano foto © Lorenza Daverio
C’era grande attesa, la sera dello scorso 4 settembre, al Regio di Torino, per la serata di apertura del Festival MiTo edizione 2019. Protagonista di gran lusso una Marta Argerich in forma a dir poco smagliante – un vero prodigio, un miracolo vivente. Già la sera precedente, per l’inaugurazione sul côté milanese, chi c’era riferisce di un successo enorme e di entusiasmi incredibili: del tutto giustificati e condivisibili, per quanto abbiamo ascoltato a Torino. Vederla salire sul palco del Regio, a braccetto con il (sofferente) e sempre grande Zubin Mehta già di per sé era motivo di emozione e l’ovazione di accoglienza del pubblico che gremiva il Regio – pubblico delle grandi occasioni, con molte autorità e celebrità presenti – la dice lunga sulla notorietà di quest’artista, al di là del mondo un po’ ristretto e di nicchia degli appassionati.
Marta siede al pianoforte e con una naturalezza indicibile, come da lunghissimi decenni, attacca il beethoveniano Concerto n. 2 per pianoforte e orchestra, il primo invero ad essere stato composto da un Beethoven ancora legato a stilemi haydnian-mozartiani, ma già in grado di stupire – si sa – con il suo originale imprinting. E allora quanta arguzia nell’esordio, icastico e pimpante, ma non lezioso, col pianoforte che, affacciandosi alla ribalta, pare interrogare l’orchestra e subito inizia quel dialogo, quel ‘corrispondersi di amorosi sensi’ e sprigiona palpabile affetto e buon umore. Poi il secondo tema, impregnato di humanitas, i tratti più estroversi e le modulazioni impreviste, il tutto accarezzato con grazia soverchia, ogni dettaglio messo a fuoco, un piacere quasi fisico per l’orecchio e per il cuore, ed anche per l’intelletto per chi ama seguire idealmente l’intera partitura vedendosela dinanzi (o addirittura scorrendone i pentagrammi, ma non occorre con Marta Argerich, tutto è talmente chiaro all’istante, una vera lezione di stile). Tutto scorre nei binari, solista ben assecondata dalla Israel Philharmonic Orchestra in totale sintonia, sia stilistica, sia ‘tecnica’ (vale a dire tutto perfettamente in asse, nessuna sbavatura); e allora ecco il prodigio di un Adagio che pare già proiettato sul pieno Romanticismo: e dire che il Concerto venne composto nell’ultimo scorcio di un ’700 invero ormai declinante. Un Adagio in cui c’è spazio per quelle divagazioni tastieristiche, quasi rapsodiche, quei passi in cui il pianoforte mirabilmente ‘accompagna’ l’orchestra, passi che già paiono presagire la mirabile bellezza (e più ancora la straordinaria novità) di Quarto e Quinto Concerto. Tempi giusti, somma appropriatezza di stile e molto, molto altro ancora.
Il pianismo adamantino della Argerich sfocia poi nello humour aggraziato del Finale, con quel tema tutto spostamenti di accenti e quel secondo elemento del Rondò che pare un tema da ‘scampagnata’, da gita en plein air nei dintorni di Vienna. La Argerich non manca di mettere in evidenza, ma con misura ed eleganza estrema che altri pianisti nemmeno sanno concepire, anche il terzo elemento, quello esotico e turchesco. Appena qua e là cede a qualche ‘intemperanza’ timbrica e più ancora dinamica, con qualche apice che, in realtà fa da spezia al Concerto, conferendo ulteriore sapore (e colore) ad una pagina che non si finirà mai di amare. Cura dei dettagli all’inverosimile e molte cose belle anche in orchestra, ammirevole ad esempio il modo in cui Mehta pone in luce l’unico punto in cui il tema principale del Rondò muta sorprendentemente ritmo, per i pedanti è a batt. 262, e Beethoven recupera la prima redazione del tema stesso, un attimo appena e pare di immergersi in un altro mondo, poi riprende la scorrevolezza del tutto e in un amen siamo all’epilogo. Applausi trionfali, ovazioni a non finire per la Argerich che, a Torino, regala al pubblico dei suoi fans ancora due bis: lo Schumann quasi caricaturale di Grillen, dai Phantasiestücke op. 16 affrontato con un senso dell’ironia ed una tecnica che lasciano a bocca aperta e, più ancora, lo Scarlatti della celeberrima Toccata in re minore tutta ribattuti e scioltezze: e ti domandi come sia possibile eseguirla con quella ‘pulizia’ e nitidezza quasi clavicembalistica, e pur tuttavia lontana mille miglia da interpretazioni esangui ed anodine che ‘vorrebbero’ essere filologico-cembalistiche, pur affrontate al pianoforte. Insomma uno Scarlatti perfettamente in stile, ma altrettanto perfettamente pianistico. Un miracolo? Un prodigio? Sì, ed ha un nome solo. Marta.
Seconda parte di serata per intero sinfonica, coronata da un bis tutto italiano, il celeberrimo Intermezzo da Cavalleria Rusticana. Nel quale la Israel ha ritrovato un suono di una bellezza indicibile, un suono caldo ed appropriato, una pasta degli archi di sovrumana bellezza, strappando calorosi applausi, quel suono che invece, purtroppo, a nostro personale avviso, era mancato almeno in parte nella pur fascinosa esecuzione della monumentale Fantastique di Berlioz. Molti dettagli in evidenza, questo sì, ma anche tempi forse eccessivamente dilatati (specie la meditativa ed introspettiva Scène aux champs risultata davvero defatigante all’ascolto). Bene la Marche au supplice, con quei tocchi di macabro e grottesco, quasi cinematografico Romanticismo noir, bene il plateale finale nel segno del Sabba, anche se è mancata invero l’emozione complessiva, talora venendo meno la tensione. Orchestra sempre di gran classe, con buone prime parti in quasi tutte le sezioni, ci mancherebbe, ancorché la Fantastique sia emersa un poco priva di personalità. Alla fine applausi interminabili al grande Zubin Mehta e tutto l’affetto mostrato dal fedele pubblico ad un grande, sommo direttore giunto all’apice della sua carriera, che pur dirigendo comprensibilmente seduto e senza più quell’esuberanza che caratterizzava i suoi anni giovanili, lascia ancora il segno per l’eleganza e l’intensità del suo gesto, del suo comunicare. E lo ha fatto, in simbiosi perfetta con Marta, in parte nella ‘difficile’ e non sempre gratificante partitura di Berlioz, massime nel graditissimo bis tutto italico lirismo. Chapeau.