di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Un nuovo, importante titolo händeliano, si è aggiunto alla tabella di marcia inaugurata qualche anno fa per portare sul palcoscenico della Scala i titoli più famosi di un repertorio e di un autore che nello stesso teatro non hanno conosciuto un’ampia diffusione per una serie di motivi non necessariamente concatenati tra loro. Il Teatro alla Scala nasce in un momento in cui Händel è già considerato un compositore non più alla moda, si vivono fermenti nuovi, il melodramma ha già varcato le soglie della riforma gluckiana e vive in sostanza dei copiosi nuovi titoli che da lì in poi sgorgheranno dalle penne dei musicisti contemporanei. Si dovranno attendere ancora tanti anni per ascoltare Händel alla Scala (o alla “Piccola”) e lo stesso teatro perderà il ruolo di contenitore onnicomprensivo atto ad ospitare qualsiasi tipo di repertorio, anche per ovvie ragioni volumetriche che ne fanno un luogo inadatto ai piccoli complessi barocchi. Non funzionerà più, infatti, il recupero tentato negli anni Cinquanta – anche di questo Giulio Cesare – che rivede piuttosto goffamente quegli esemplari antichi attraverso le metodiche vocali e sceniche dell’opera ottocentesca.
Né la Scala, fino a pochi anni orsono, era in grado di affrontare con la dovuta autorevolezza autori e titoli considerati oramai specialistici e appannaggio di altri teatri che si svincolavano dal cosiddetto “grande repertorio”. E da un certo punto di vista non lo è neanche tuttora, almeno per ciò che riguarda i livelli sonori di musiche che siamo oramai abituati anche e soprattutto ad ascoltare tramite mezzi elettronici, con una equalizzazione di volumi che rende tutti i dettagli perfettamente percepibili. In questo caso si trattava invece di un Händel, campione del barocco trionfale, proposto grazie a una orchestra filologicamente irreprensibile il cui suono però stenta ad emergere dalla buca di un teatro così imponente. E di voci che tentano di rievocare i miracoli dei castrati senza raggiungere, di quelli, né i virtuosismi stratosferici né (pare) l’intensità sonora. Ma queste non sono scusanti per evitare un comparto di teatro in musica che non ha eguali e ben venga il tardivo recupero, con i mezzi oggi a disposizione, di lavori che probabilmente non sarà mai possibile riascoltare nelle condizioni originali.
Tra i problemi relativi alla messa in scena di questo repertorio barocco vi è ovviamente quella della quasi doverosa attualizzazione dei fatti, non essendo oggi possibile pensare al rispolvero di crinoline, parrucche, elmi, spade, coturni. E a ben guardare anche nel primo Settecento i miti dell’antichità risultavano per forza di cose già imitati e corrotti secondo prospettive “moderne”. Attualizzazione che, nel caso di soggetti che trovavano la loro collocazione in zone più o meno convergenti con il vicino Oriente, ha da molti anni visto una ambientazione legata a una delle grandi tragedie della storia del Novecento e oltre, ossia il disastroso rapporto tra quei luoghi e il famelico Occidente. Se questa attualizzazione si esplica – come ci è capitato purtroppo molte volte di vedere – in un semplice accumulo di trovarobame militar-guerresco il gioco viene subito smascherato e porta a dei risultati di poco conto. Altro è il caso in cui registi intelligenti come Robert Carsen, coadiuvati da altrettanto ispirati scenografi e costumisti (Gideon Davey), esperti di luci (lo stesso Carsen e Peter van Praet), coreografi (Rebecca Howell), esperti di video (Will Duke) seguono le idee di un drammaturgo illuminato (Ian Burton) e invece di essere travolti dai luoghi comuni individuano dapprima un nuovo contesto narrativo autosufficiente e giocano con il soggetto originale individuando spunti di trasformazione che risultano quasi sempre suscitare una sana ilarità nel pubblico. Un sorriso accennato, però, non una risata volgare e ammiccante come spesso succede in tante regìe di questo tipo.
Non si vuole togliere al pubblico la sorpresa di trovarsi di fronte alla maggior parte di questi accenni ironici davvero indovinati e ricordiamo qui solamente che l’epopea dell’incontro-scontro tra l’Impero romano e l’antico Egitto dei Tolomei è trasformata in una guerra di interessi dove gli Egiziani diventano in realtà (ricchissimi) Arabi e la vicenda finisce alla buona in un ben più diplomatico “deal” che ha per oggetto lo sfruttamento di ingenti risorse petrolifere. Altro che notti d’amore tra Cesare e Cleopatra ! Qui ciò che conta è il business, e la ricchezza generata dalla nuova Compagnia (che ha come simbolo un cammello che ricorda il famoso “canone a sei zampe” dell’Agip-Supercortemaggiore) giustifica finalmente il finalone in sol maggiore sulle parole del fantastico libretto di Haym: «Sgombrato è il sen d’ogni dolore / ciascun ritorni ora a goder / Ritorni omai nel nostro core / la bella gioja ed il piacer». E tra i piaceri vi sarà anche lo scambio dei regali griffati (quelli occidentali, impacchettati in pregevoli sacchetti di Fendi) contro quelli probabilmente più cheap degli arabi (babbucce, coperte, teli e via dicendo) oppure la proiezione di filmati in cui la Cleopatra della De Niese è una delle nuove dive accanto alle Cleopatre famose del cinema, dalla Taylor alla Leigh e alla Colbert. Le chicche di regìa sono tante, e i protagonisti di un cast come si suol dire “stellare” si sono mossi con perizia da grandi attori all’interno di un contesto non facile da amministrare in scena, senza togliere nulla al fluire implacabile di una musica meravigliosa. È un poco azzardato affermare che la serie interminabile di arie e i pochissimi duetti che vanno a costituire le grandi opere händeliane costituiscano un insieme perfettamente ragionato che assicura una “tinta” al titolo specifico. Sarebbe sufficiente considerare l’onnipresente melodia alla Lascia ch’io pianga per assicurare la portabilità di tali melodie da un’opera all’altra. D’altro canto è innegabile che almeno la successione di momenti eroici e amorosi, di furore e di compianto trovi in questo Giulio Cesare una naturale collocazione che accompagna il lungo ascolto con una consequenzialità che neppure la più perfetta delle regie può ambire ad esprimere. Né si può stare a questionare sulla integrità testuale, poiché non esiste un “Giulio Cesare”, bensì una storia poco documentabile di versioni differenti e manipolate dalle necessità contingenti di teatro e di disponibilità reale di cantanti.
Cantanti che all’epoca coinvolgevano tra l’altro figure mitiche di castrati come il famoso Senesino e che già dicevamo riportarci a una realtà non più replicabile. Nella conferenza stampa di presentazione di questo allestimento il loquace protagonista (Bejun Mehta) ricordava come nell’opera esistono ben quattro elementi di questo tipo e che due di questi (Cesare e Sesto) erano illustrati da due tipi di vocalità decisamente differente. E differenti erano infatti in questo caso gli apporti vocali dello stesso Mehta e del più esile Philippe Jaroussky, che più che un figlio vendicativo di Pompeo sembrava un ragazzino che cerca di fare la voce grossa (leggi acuta) di fronte a personaggi assai più maschili (!) di lui. Mehta è stato un protagonista capace di interpretare le pieghe più nascoste del personaggio e un vocalista che non considera i virtuosistici gorgheggi händeliani come un punto di partenza imprescindibile, semmai un espediente che rende ancora più notevole l’arte sua. Grande personaggio, grande cantante, forse meno appariscente di altri colleghi (pensiamo soprattutto a Fagioli) ma certamente uno dei pochi, oggi, che è capace di porre definitivamente l’importanza della propria specificità timbrica sullo stesso piano di quella del quartetto di voci più tradizionale. Una sorpresa positiva è poi derivata dall’ascolto di Christophe Dumaux, volitivo Tolomeo che incarna una tipologia vocale più legata all’immaginario collettivo relativo ai castrati, senza scendere nell’a volte fastidioso sopranismo degli elementi alla Jaroussky. Meno evidente, ma il ruolo è quello che è, si è rivelato il pur bravissimo Luigi Schifano (Nireno), mentre Christian Senn, voce di basso, è stato un Achilla perfetto nella sua diciamo così mascolinità e lo stesso dicasi per Renato Dolcini nei panni di Curio.
Cleopatra era Danielle De Niese, voce di grande intensità, perfettamente padrona del ruolo sia dal punto di vista scenico che da quello vocale (con qualche espansività di troppo). A lei sono richieste doti attoriali e di naturale seduzione non da poco, qualità che sono state soddisfatte nel migliore dei modi. Ruolo altrettanto difficile, anche perché più smussato, è quello di Cornelia, che occupa un posto scomodo proprio perché viene maltrattata dall’inizio fin quasi alla fine dalle parti contrapposte, essendo romana (quante volte lo ribadisce nel libretto !) e allo stesso tempo vedova del più implacabile nemico di Cesare. La professionalità di Sara Mingardo, che dell’opera barocca è davvero regina, ha sorretto con grande successo una serata premiata da continui applausi al termine di ogni numero. L’Orchestra della Scala dedicata agli strumenti storici ha sorretto degnamente il gesto di Giovanni Antonini, anch’egli grande esperto di questo tipo di repertorio, forse un poco meno deciso nella prima parte della serata nelle scelte dei tempi (l’inarrivabile «Va tacito e nascosto» cantato da Mehta pativa in particolare una certa lentezza e mancanza di nerbo ritmico). Per comodità di rappresentazione i tre atti dell’opera erano divisi da un solo intervallo posto all’incirca alla metà dell’atto secondo. Grandissimo successo (un segno del logoramento della tollerabilità del pubblico di fronte al “solito” repertorio dominato dai grandi nomi del melodramma italiano?) e ripetute chiamate dei protagonisti tutti alla ribalta, compresi i responsabili dell’allestimento, che una volta tanto non hanno patito l’affronto di eventuali rimostranze da parte del pubblico stesso.