di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Mentre ancora proseguivano le recite dei Pescatori di perle – registrando uno sforzo produttivo e organizzativo non da poco –re al Regio di Torino è andata in scena la pucciniana Tosca martedì quindici ottobre; a seguire – con un doppio cast – nove recite protratte sino al ventinove ottobre.
Di spettacolo di gran classe si è trattato che, non a caso, ha registrato un vasto e meritato successo. Tosca, come poche altre opere – lo sanno bene melomani, ma anche registi, scenografi, direttori e quant’altri – prevede tre ‘luoghi’ scenici ben caratterizzati: vale a dire la romana chiesa di Sant’Andrea della Valle, l’interno di Palazzo Farnese e da ultimo gli spalti di Castel Sant’Angelo; sicché mal sopporta attualizzazioni e trasposizioni ‘altre’. Ben venga allora un allestimento tradizionale di rara eleganza e forte impatto, quello in scena al Regio per l’appunto, allestimento proveniente dal Massimo di Palermo, ma concepito per il Maggio fiorentino nel 2008. Le scene, stupende e coreografiche sono di Francesco Zito che firma anche i bei costumi stilisticamente appropriati: ammirato il fondale dipinto del primo atto, un magnifico trompe l’oeil che ancor più esalta altare centrale, cappella laterale degli Attavanti e immancabile ritratto della Maddalena sulla destra. Secondo quanto dichiarato da chi firma l’allestimento, la cupola stessa vorrebbe innescare un senso di ‘oppressione’ a simboleggiare il «forte potere ecclesiastico» della Roma papalina che letteralmente ‘schiaccia’ le due figure maschili (Cavaradossi e Angelotti, ostili al potere). In realtà questa sorta di magnifica visione pseudo assonometrica, aggettante sul davanti, in realtà più prospettica che assonometrica, risulta piacevolmente luminosa, specie quando si rischiara ulteriormente in concomitanza con il Te Deum: al quale partecipano altresì figure collocate ad hoc a simboleggiare i «fantasmi dell’ancien régime». E si tratta di una realizzazione pittorica di alto livello qualitativo; così pure, nel secondo atto, ammirevole la ricostruzione fedele (ed attentissima ai dettagli con meticolosa precisione) per l’interno di Palazzo Farnese, rivelato in tutta la sua opulenza.
Ottime e funzionali le luci di Bruno Ciulli: bellissima l’alba del terz’atto e di forte impatto il colore livido – in concomitanza con il funereo rintocco in orchestra – laddove Scarpia giace ormai cadavere, in chiusura del second’atto; soprattutto, pulita e sobria la regia di Mario Pontiggia (che ritorna al Regio dopo ben ventisette anni): muove coreograficamente le policrome masse nel sontuoso e popolato Te Deum, colloca comme il faut i personaggi conferendo pathos, ma senza inutili trouvailles. Forse (unico neo) si poteva rendere meglio l’ingresso di Cavaradossi a palazzo: inizialmente pare un Lord azzimato e impeccabile in visita di circostanza, più che un prigioniero politico che sta per essere torturato; così pure forse avrebbe giovato all’udibilità una collocazione in scena del pastorello, nell’alba lattiginosa del terz’atto. È pur vero che il pastorello convenzionalmente deve stare ‘fuori campo’, ma una piccola concessione – come del resto spesso avviene, facendo presa sull’intelligenza del pubblico che riesce ad immaginarlo per l’appunto fuori campo – permette di udire la sua voce impegnata nel celebre stornello. Quanto all’impianto scenografico del celebre (e conciso) terz’atto, è stato re-interpretato in maniera personale, quanto meno in parte: dacché in luogo dei tradizionali spalti con tanto di angiolone di Castel Sant’Angelo, campeggia un muro, una sorta di alto parapetto, ma in evidenza si vede lo stemma papale, per precisa scelta, a simboleggiare il ripristino del potere papale dopo la caduta napoleonica.
Fin troppo esuberante e generosa, col rischio di sovrastare talora le voci, la direzione del giovanissimo e assai valido Lorenzo Passerini, una vera rivelazione, una scoperta per la maggior parte del pubblico, dato i suoi soli ventotto anni (Daniel Oren, solo nelle ultime recite): ben assecondato dall’orchestra, ‘puntava’ per lo più sui tratti veristi e granguignoleschi della sovrana partitura, ma cesellando anche i momenti intimisti. Ottimo il coro (istruito da Andrea Secchi) e il coro di voci bianche (Andrea Fenoglio).
Un cast di alto livello con Anna Pirozzi (soprano drammatico, già ammirata al Regio nel 2012 nel ruolo di Amelia nel Ballo in maschera e nella stagione 2016/17 nel Macbeth) è stata una convincente Floria Tosca: applaudita in «Vissi d’arte», anche se invero ci si aspettava qualcosa in più (bene «O dolci mani»), magistrale scenicamente nella parte finale. Applaudito altresì il beniamino del pubblico Marcelo Álvarez, un Cavaradossi dallo squillo possente, aitante e vocalmente di spicco, vero specialista del belcanto ed ammirato interprete in titoli verdiani e veristi. Il pubblico lo ha apprezzato già in «Recondita armonia» (ma in apertura un po’ esitante) giù giù sino al commovente «E lucevan le stelle». Applaudito a lungo l’insuperabile e navigato Ambrogio Maestri, a giganteggiare nel ruolo del perfido Scarpia: ruolo che nella sua ultradecennale carriera ha interpretato sui palcoscenici di tutto il mondo. Cattivo e sfrontato quanto occorre, sprezzante, ha regalato vere emozioni nell’attesissima «Tre sbirri e una carrozza», insinuante e torbido oltre che subdolo, come occorre in «Ella verrà» e nelle «Povera mia cena fu interrotta». Nel corso delle recite, nei ruoli principali si alternavano Davinia Rodríguez (Tosca), Jonathan Tetelman (Cavaradossi) e Gevorg Hakobyan (Scarpia). Spassoso, anche, se non soprattutto nella gestualità, il sagrestano di Roberto Abbondanza, troppo vibrato invece in Bruno Lazzaretti (Spoletta), benino Romano dal Zovo (Angelotti) dal timbro scuro, ma anche un poco ingolato, ma con una presenza scenica che lo riscattava. Corretti i comprimari che completavano il cast, vale a dire Gabriel Alexander Wernick (Sciarrone), Giuseppe Capoferri – Enrico Bava (un carceriere) e, in alternanza, le piccole Viola Contartese e Gaia Bertolino (un pastorello).
Grandi emozioni per uno spettacolo del quale conserveremo a lungo vivi ricordi. Da ultimo un episodio curioso che pure merita di essere registrato. La prova generale del primo cast si è svolta a porte chiuse, per ragioni tecniche, laddove quella della seconda compagnia è stata invece commentata, in apertura, con humour ed arguzia nientemeno che dal neo eletto, colto e sensibile sovrintendente e direttore artistico Sebastian Schwarz: il quale ha spiegato, con rammarico, che la protagonista (Davinia Rodríguez) era momentaneamente indisposta e quanto alla Pirozzi la si lasciava opportunamente ‘riposare’ in vista della prima. «Ma non temete – ha esordito Schwarz letteralmente accattivandosi la simpatia del pubblico – abbiamo ben tre Tosche, giacché la torinese Raffaella Angeletti [più volte applaudita al Regio in varie opere e vera specialista N.d.R.] ha accettato di intervenire a questa ‘prova’ sostenendo il ruolo, mentre l’assistente alla regìa Angelica Dettori ‘mimerà’ Tosca stessa». E così è stato, con l’ottima Angeletti, nero vestiva, e leggio di sicurezza con lucina a lato scena, ad interpretare Floria Tosca. Chapeau.