di Francesco Lora foto © Yasuko Kageyama
Con sei recite delle Vêpres siciliennes dal 10 al 22 dicembre, ecco inaugurata la stagione lirica del Teatro dell’Opera di Roma. Fu questa la prima istituzione italiana a presentare, nel 1997, il grand opéra di Verdi per intero e in lingua originale: dirigeva Nelson, Tiezzi era regista e Dessì, Coni e Furlanetto capitanavano la compagnia di canto. Ventitré stagioni più tardi, lo stesso teatro si aggiudica ora anche il secondo posto, e ciò avviene mediante uno spettacolo che espone il progetto di lavoro sotto il nuovo direttore musicale, Daniele Gatti. A un anno dalla nomina egli entra adesso nel pieno esercizio del ruolo, e da qui alla prossima inaugurazione compresa dirigerà altri quattro titoli, ora spaziando nel repertorio e ora indugiando su un solo autore: tra I Capuleti e i Montecchi di Bellini e La clemenza di Tito di Mozart si ascolteranno The Rake’s Progress e Oedipus rex di Stravinskij. Quanto a Les vêpres siciliennes, il metodo di Gatti marchia non solo l’esegesi della partitura e gli esiti presso orchestra e coro, ma anche il discorso teatrale, per stretta collaborazione con la regista, e la messa a punto vocale, per minuziosità di studio con i cantanti. Ha ammesso egli stesso l’impervietà d’accesso al linguaggio e ai significati di quest’opera, resa cupa e dilatata dall’adesione di Verdi alle convenzioni e al lascito di Scribe e Meyerbeer. Ma da lui viene, in premio proprio e di tutti, una lettura così conscia e assimilata da bandire la comodità del calligrafismo, così sinfonicamente rifinita da istruire sul debito dell’autore ai maestri intercettati durante i soggiorni parigini, così forbita e vivida da arrotondare i fortissimo o far fibrillare il passo drammatico anche nei luoghi di stasi. Quello di Gatti è insomma un capolavoro di approccio erudito all’opera italiana-francese dell’Ottocento: lo garantiscono, inquadrano e blindano, nell’orizzonte di una genealogia senza pari, il modello di Muti, la memoria di Sinopoli, la compresenza di Chailly e la crescita di Mariotti.
Nel nuovo allestimento scenico, le scene sono di Richard Peduzzi, polverose a imitare una cava di pietra; i costumi, senza precisa connotazione storica, sono di Luis F. Carvalho; e le luci, soffuse, notturne, filtrate nel pulviscolo, sono di Peter van Praet. La coreografia è di Massimiliano Volpini e Valentina Carrasco: provvede sia a un abile movimento della massa corale, sia a una drammaturgia per il corposo divertissement delle quattro stagioni, mutato qui in biografia psicologica di Guy de Montfort, ossessionato dai rimorsi, e soprattutto dell’ignota donna divenuta, nella sopraffazione, madre di suo figlio Henri. La regìa è della Carrasco stessa: coreografa provetta, bisognerebbe però spiegarle che l’insistita richiesta di rumori in scena – grida, salti, colpi, disseminati lungo l’opera – non piace a chi sta eseguendo o ascoltando tanto bendidìo di musica, così come risulta evidente l’interesse di lei più alla statica rappresentazione del popolo paralizzato dalla paura che alla restituzione delle tormentate relazioni nel quartetto di protagonisti.
I rispettivi quattro interpreti sanno però a priori il fatto loro. Lo sa Roberta Mantegna, curioso caso di cantante emergente con volatilità timbrica ed emissiva da soprano leggero, capace tuttavia di ergersi a risonanza e resistenza da calibro lirico o addirittura drammatico: guidata da Gatti, dà luogo a una Duchesse Hélène finalmente solida nella linea di canto ma fondata su una visione sfumata, lieve e dolente del personaggio anziché veemente e proterva. Un assoluto riferimento per la diabolica parte tenorile di Henri, ove convergono la tradizione dell’acutissimo haute-contre alla francese e quella di una più robusta vocalità medio-ottocentesca, è il solito e provvidenziale John Osborn, attraverso il quale tutto sembra musicalmente facile e in sé carico di comunicativa. Nel caso di Roberto Frontali, ormai sessantenne, si sarebbe ormai pronti ad annotare con affetto i segni del declino vocale: il suo Montfort romano, con quelle mezzevoci che addolciscono il personaggio dai modi tirannici e impreziosiscono il baritono dalla pasta ruvida, mostra al contrario quale eterna giovinezza derivi dalla sottigliezza interpretativa e dalla consapevolezza tecnica. Consapevolezza tecnica della quale è infine maestro il basso Michele Pertusi come Jean Procida: al centro del legato che muove su amplissime arcate di fiato, al centro del timbro che vibra omogeneo a ogni capo della tessitura, al centro di un accento scolpito nell’orgoglio eppure umano e paterno, sta una forza di caratterizzazione che attende di essere proseguita in un altro personaggio tutto d’un pezzo, antesignano di quello “vespertino”: il Marcel negli Huguenots di Meyerbeer, prossimo debutto al Grand Théâtre di Ginevra.