di Attilio Piovano foto © Edoardo Piva
Per quanto singolare possa sembrare, l’opera in un atto Violanta del moravo Erich Wolfgang Korngold su libretto di Hans Müller non era mai stata rappresentata in Italia. Apparve per la prima volta a Monaco di Baviera, presso il locale Hoftheater il 28 marzo del 1916, per la direzione di Bruno Walter riscuotendo immediato successo di pubblico e critica – ha dunque 104 anni e li porta benissimo – e da allora nessuna istituzione della nostra Penisola aveva pensato di metterla in scena; a colmare questa singolare (e a dir poco bizzarra) lacuna ci ha pensato il torinese Teatro Regio, significativamente in occasione del Giorno della Memoria (in riferimento alle vicende biografiche dell’autore), affidandosi ancora una volta – dopo il recente cimarosiano Matrimonio segreto – alle mani sapienti di Pierluigi Pizzi quanto a regia e scena unica e alla bacchetta del navigato e colto Pinchas Steinberg: che al Regio da tempo è ormai di casa e, soprattutto, di Korngold è uno dei massimi esperti. Teatro (lodevolmente) gremito e buon successo di pubblico, la sera dello scorso martedì 21 gennaio 2020 e quattro repliche sino al 28. Musicista di singolare talento, già enfant prodige poi emigrato negli USA a seguito dell’emanazione delle famigerate leggi razziali (da cui la menzionata decisione di rappresentare ora l’opera nell’approssimarsi della Giornata della Memoria) accusato di essere un musicista degenerato, Korngold – è noto – seppe poi conquistarsi un ruolo come autore di pregevoli colonne sonore ottenendo anche un Oscar.
Un’opera, Violanta – occorre ammetterlo – di incommensurabile fascino soprattutto sotto il profilo timbrico: aspetto che emerge fin dal misterioso Preludio con quei rintocchi di campane, lugubri e premonitori destinati a riaffacciarsi poi ancora verso la fine come una sorta di tragico monito, riannodando le fila della narrazione con un’efficacia drammaturgica che si direbbe di natura quasi cinematografica; l’ammirazione dinanzi alla lussureggiante e talora fin opulenta partitura aumenta ancor più se si pone mente al fatto che Korngold contava appena diciotto anni quando la compose, già rivelando singolarissime e straordinarie capacità di assimilazione, abbinate a una formidabile maestria tecnica. Comprensibile peraltro che il musicista non si fosse ancora foggiato un idioma del tutto personale; a dir poco straordinario, invece, che a quell’età già avesse interiorizzato la scrittura di svariati e anche dissimili musicisti, correnti, stili e quant’altro. Una partitura, quella di Violanta, dalle dense armonie, «traboccante di sensualità quando non di vero e proprio erotismo», per lo più impregnata di un cromatismo che in primis, nonostante vari studiosi si siano affrettati a negarlo, occhieggia vistosamente a Wagner, sia pure filtrato e per così dire storicizzato; l’opera – è innegabile – tristaneggia abbondantemente nella scena clou dell’innamoramento da parte di Violanta per Alfonso, colui ch’ella vorrebbe uccidere per vendicare la seduzione e il conseguente suicidio della sorella Nerina: non a caso il momento dell’estasi tra Alfonso e Violanta rappresenta forse il tratto di più vistosa prossimità con il wagneriano Tristano. Così pure l’opera rivela non poche assonanze straussian-mahleriane; non solo, si percepiscono la lezione di Zemlinsky che di Korngold fu il maestro come quella del primo Schönberg (ci senti la scrittura di Verklärte Nacht e l’ammirazione per quell’universo espressivo), si intuiscono financo taluni echi pucciniani, reminiscenze debussiane (qua e là emergono frammenti di scale esatonali), qualcosa della densità armonica e contrappuntistica di un Reger e molto altro ancora; il tutto riformulato in un linguaggio già moderatamente originale che seduce fin dai citati e suggestivi rintocchi del Preludio, finendo però per stordire, ‘saturando’ come uno di quei profumi inebrianti e fin troppo intensi da risultare eccessivamente persistenti.
E pazienza poi per qualche carenza di equilibrio sul piano drammaturgico: da rimarcare soprattutto l’eccessiva (e a dir poco compiaciuta) dilatazione del catastrofico epilogo che, tuttavia, volentieri si perdona a un musicista poco più che adolescente. Una musica – la sua – che aderisce con meticolosa e quasi maniacale precisione ai singoli passi testuali – gli esempi potrebbero essere numerosissimi, ma porterebbero via troppo spazio – con modalità, pur tuttavia, talora un poco didascaliche.
Pierluigi Pizzi, a nostro avviso del tutto ragionevolmente, traspone questa vicenda sinistra e decadente di Eros e Thanatos, declinata per così dire in salsa Jugendstil, dalla Venezia del XV secolo entro la quale l’avevano collocata librettista e musicista (seguendo peraltro una moda: e sarà appena il caso di ricordare al riguardo come Violanta preceda di pochissimo Una tragedia fiorentina del già menzionato Zemlinsky, maestro di Korngold) agli anni Venti del ’900 – lo rivelano a chiare lettere i fascinosi costumi – ovvero alla contemporaneità dell’epoca in cui l’opera venne composta. A Pizzi occorre riconoscere il merito di aver concepito un impianto scenico di grande eleganza e raffinatezza che pare ispirato al Regio stesso (con quel finestrone circolare molto molliniano sul fondo, dal quale si intravede il passaggio, non solamente simbolico, di una gondola nell’oscurità della notte, riflessa dalla laguna, rossi velluti e broccati alle pareti a predominare: un semplice scrittoio sulla sinistra ed un ampio divano sulla destra); impianto entro il quale Pizzi muove con correttezza i protagonisti, senza inutili trouvailles, ma rispettando i ‘tempi’ drammaturgici: dunque l’esordio onirico e notturno, poi il clima della festa (con le maschere e la movimentata presenza di svariati personaggi), quindi il viraggio verso la tragedia, lungamente e artatamente procrastinata, e la rarefazione di presenze sul palcoscenico.
Tra i passaggi di maggior appeal il momento in cui Violanta, determinata e volitiva, rivela al marito i propri inappellabili e ossessivi propositi di vendetta: qui la musica si fa acuminata e frammentaria, pare la superficie di uno specchio che si frantumi, laddove nella maggior parte delle scene a prevalere è invece un torrentizio fluire melodico, un andamento di natura lirico-drammatica che di Korngold è poi la cifra prevalente. Quando Violanta e Simone si accordano per la canzone (vero e proprio leit-motiv) che farà da segnale e siglerà l’irruzione di Simone stesso nella stanza, pronto a uccidere Alfonso, ecco che il substrato armonico e melodico assumono tratti particolarissimi e inediti. Il passaggio in cui la nutrice Barbara scioglie i cappelli alla giovane e affascinante Violanta costituisce il punto di massima tangenza con lo Jugendstil e pare la trasposizione in musica dei quadri di Klimt. Una musica, quella di Korngold, camaleontica e amabilmente mutevole, è il caso dell’interludio dopo l’incontro con la nutrice. E ancora: l’esteso monologo di Alfonso che si ‘giustifica’ e cerca attenuanti per la violenza perpetrata narrando della propria infanzia infelice («Non ho mai conosciuto mia madre» ed è lì che Violanta scopre di essere innamorata di lui) potrebbe venire proficuamente interpretato in chiave psicanalitica: del resto proprio in quegli anni la psicanalisi a Vienna muoveva i suoi primi passi. Molte altre osservazioni si potrebbero proporre, ma è solo per ragioni di spazio che ci limitiamo alle annotazioni fin qui inanellate: non volendo (e potendo) abusare della pazienza del lettore.
A Steinberg va l’apprezzamento sincero per l’immane lavoro di concertazione, tale da ottenere un ottimo risultato sul vasto organico orchestrale (comprendente una ricca messe di percussioni, spesso trattate con leggerezza ed elegante levità, pianoforte, arpe e celesta). Un plauso speciale alla fascinosa Annemarie Kremer, soprano drammatico di origine olandese, per aver ben disimpegnato l’impervia parte della protagonista (rendendo se non credibile quantomeno accettabile il suo ‘ribaltone’ psicologico, ovvero il repentino innamoramento – al culmine di una trama da più parti definita labile e francamente frusta – invero magnificamente ‘sottolineato’ dall’evolvere della trama sonora); protagonista consorte del capitano Simone Trovai, impersonato dal baritono wagneriano Michael Kupfer-Radecky, vocalmente convincente ancorché un poco impacciato nei movimenti e talora fin goffo (il suo ingresso finale in scena e quel plateale sguainare la spada per uccidere il rivale risultava addirittura risibile, facendo d’un tratto venire meno la tensione. E dire che di lì a poco la vera tragedia si compie, con Violanta che all’improvviso si frappone fra il marito e Alfonso subendo il colpo mortale vibrato dal consorte stesso e destinato ad uccidere il rivale, mentre in lontananza si ode la sfrenatezza ebbra dei canti di carnevale). Ammirato il tenore statunitense Norman Reinhardt nei panni di Alfonso, figlio illegittimo del re di Napoli e toccante la nutrice del mezzosoprano Anna Maria Chiuri. Pressoché tutti di buon livello i restanti componenti del cast (Peter Sonn, Soula Parassidis, Joan Folqué, Cristiano Olivieri, Gabriel Alexander Wernick, Eugenia Brayanova e Claudia De Pian).
Bene il coro (istruito da Andrea Secchi) e sagaci le luci, ora vivide, ora radenti, ora livide di Andrea Anfossi. Gran prova quella dell’Orchestra del Regio che ancora una volta si dimostra strumento duttile e macchina ‘ben oliata’ in grado di trascorrere con souplesse dal Settecento cimarosiano al Novecento espressionista. Spettacolo di gran classe del quale conserveremo a lungo gradito e vivace ricordo.