di Luca Chierici foto Benjamin Voros
Il lento rifiorire delle attività musicali milanesi ha dovuto fare i conti con una realtà ancora troppo indefinita che mette oggi in seria difficoltà i gestori delle principali società concertistiche e liriche. Non solamente la Scala guarda con preoccupazione al proprio futuro, con i probabili seicento posti garantiti da settembre, sempre che non succeda nulla di ancor più preoccupante per la salute pubblica. Anche il Dal Verme, l’Auditorium di Largo Mahler, la sala del Conservatorio che ospita le tre maggiori istituzioni concertistiche della città sono in grande difficoltà nel definire una stagione prossima ventura in vista di una disponibilità di posti molto ridotta. È chiaro che in questo inizio d’estate non si poteva stare alla finestra a scrutare l’orizzonte e vi sono state alcune proposte di riapertura, pur seguendo tutte le regole di sicurezza, che garantiranno ai milanesi un Luglio meno silente del previsto.
Diciamo subito che ascoltare un concerto indossando la mascherina non è proprio la condizione ideale per concentrarsi esclusivamente sull’evento musicale. Il distanziamento e i vuoti di posto tolgono poi la sensazione di accomunamento che spesso ci fa sentire quasi come adepti di una sorta di religione, e anche questo aspetto non risulta molto piacevole da digerire. Ma forse la novità per alcuni più indigesta risiede nella ricerca a tutti i costi di programmi brevi e “popolari”, anche se non si sa bene quale sia veramente il significato di questo termine. Gli è che una parte di pubblico è seriamente preoccupata per questa virata populista che non si capisce bene da dove abbia origine. Si dice che, per la Scala, la messa in scena futura di grandi opere di repertorio possa attirare di nuovo ingenti quantità di pubblico, nostrano e straniero, ma confessiamo che qualsiasi possibile programmazione in tal senso ci rende orfani di tanti progetti che si sarebbero dovuti palesare a partire dall’inizio della malaugurata “era Covid”. E per quanto riguarda i concerti, va bene iniziare nuovamente con programmi della durata di un’oretta, ma dove è scritto che si debbano scegliere per forza programmi “facili” alla portata del grande pubblico? Il pubblico è quello che esisteva prima, e se le varie società promettevano scelte di un certo impegno culturale non si vede perché le linee guida di quel tipo di programmazione non possano essere rispettate.
I primi due concerti del mese di Luglio cui abbiamo assistito avevano nel primo caso una impronta decisamente popolare, e nel secondo la proposta di un classico beethoveniano intramontabile, cui però sono seguiti fuori programma non proprio in linea con il piatto forte della serata.
La Società dei Concerti ha puntato il primo Luglio su una coppia molto affiatata (tanto da essere suggellata da un unione familiare) costituita dal clarinettista russo Anton Dressler e dalla pianista argentina Ingrid Fliter. Musicisti di livello tutti e due, non c’è dubbio: nel primo caso ci troviamo di fronte a un dominatore assoluto dello strumento e a un artista di grande levatura; nel secondo a una ancora più interessante figura di solista che è in grado di imprimere a un repertorio arcinoto le caratteristiche di una libertà ritmica, di un senso del rubato tutto latino che hanno fatto drizzare le orecchie anche a chi credeva di avere ascoltato già di tutto e di più. L’affiatamento è apparso l’elemento vincente nella Sonata di Poulenc e in Scaramouche di Milhaud, mentre la bravura dei singoli si è concretizzata in pagine di Stravinskij e Piazzolla e in una serie di Valzer e Notturni chopiniani. Del terzo pezzo per clarinetto del grande Igor ricordavamo nella stessa sala una esecuzione ancora più magica ad opera del grande Richard Stoltzmann, ma Dressler ha giocato altre carte convincenti che rendevano comunque giustizia a un disegno geniale fatto di ironia, tratto elegiaco, sapienza di scrittura. Il successo ottenuto dalla coppia è stato davvero notevole e ha portato alla concessione di un buon numero di bis che hanno messo ulteriormente in evidenza le qualità del duo e delle componenti solistiche.
La sera successiva si ascoltava invece la replica di un concerto tenuto dal pianista russo Alexander Romanovsky come solista e direttore dei complessi dell’Orchestra Verdi, nella sala piuttosto squillante dell’Auditorium di Largo Mahler. Il pianoforte posto con la tastiera parallela alla platea e scoperchiato in modo tale da permettere al solista il contatto frontale con l’orchestra ha portato a una esecuzione del Quinto concerto beethoveniano (il famoso ‘Imperatore’) che avremmo voluto più misurata, con un uso più controllato del pedale di risonanza e con sonorità un poco più trattenute. Ne è uscito un Beethoven come forse avrebbe potuto essere presentato dal Liszt degli anni d’oro, con qualche esagerazione che non ricordavamo essere uno dei lati più evidenti del superbo pianismo di Romanovsky. Il carattere “popolare” del programma – e diremmo anche una certa propensione al melos slavo – è uscito allo scoperto con i bis, che poco erano in sintonia con il pezzo forte della serata. Passi per il Vocalise di Rachmaninoff eseguito in trascrizione orchestrale e vagamente collegato a un forma di compianto per le perdite umane dovute alla pandemia, ma il guerresco Preludio op. 23 n. 5 dello stesso Rachmaninoff, con il suo dolciastro ma bellissimo intermezzo dove i grandi pianisti ce la mettono tutta per porre in risalto con diversi effetti coloristici una numero imprevedibile di voci secondarie, forse poteva essere evitato. Pubblico entusiasta composto (anche) da numerosi fan del solista e direttore.