di Santi Calabrò foto © Stofleth
Estendere il repertorio del teatro musicale, riesumando opere consegnate all’oblio, pone un dilemma rispetto all’allestimento: regia tradizionale o innovativa? In questi casi l’opzione più creativa è tanto allettante quanto azzardata. Nei titoli che ricorrono spesso, una regia “di rottura” dialoga con un’idea generale già consolidata dell’opera e del suo valore; invece, per le opere che sono presenti nei libri di storia ma quasi mai vengono allestite, si rischia che la storia degli effetti dell’opera riparta (o parta) condizionata da interpretazioni troppo libere, fino al punto di fare del regista una sorta di coautore. Assumere questo rischio ha però un rovescio positivo: proprio la regìa a volte può mettere in luce i portati meno evidenti di un’opera minore o trascurata, può rileggerne i significati e la drammaturgia, e restituirla alla fine più pronta a decollare di quanto una messinscena fedele all’ambientazione, a tutte le didascalie e ai minimi dettagli del libretto potrebbe fare. A prima vista affidare la ripresa di un’opera rara ad Àlex Ollé e alla compagnia teatrale La Fura dels Baus, artefici internazionalmente noti sulla scena della lirica per proposte innovative e a volte trasgressive, sembrerebbe andare proprio nella direzione del rilancio (ri)creativo. In realtà Ariane et Barbe-Bleue di Paul Dukas, opera di grande spessore musicale ma finora di rarissimo allestimento, nella recente nuova produzione del teatro di Lione (in streaming) ha goduto di una sintesi tra le opzioni della riscoperta fedele e della rilettura audace. Anzi, a voler proprio trovare una prevalenza, nella sostanza il pendolo oscilla di più nella prima direzione. L’apporto originale della Fura dels Baus è individuabile in aspetti di riverniciatura, di contorno, nella presenza di un’azione concomitante congruente e non invasiva, e soprattutto nell’eliminazione di aspetti residuali e impregnati di codici potenzialmente svianti che, provenendo dalla fonte, gravano anche sul lavoro di Dukas. Il libretto riadatta infatti un testo di Maeterlinck che, per quanto sia interiorizzato in senso simbolista, resta indietro rispetto al rovello sugli aspetti psicologici nel quale la musica tardoromantica e del primo Novecento è particolarmente versata. Il lavoro di Maeterlinck è pur sempre una commedia, un genere che nel tardo Ottocento non può fare a meno di innestare sul remoto precedente fiabesco (Perrault) delle stratificazioni successive, tra cui un tema sociale di marca settecentesca. Il fatto che siano dei contadini (popolo: stato di natura) a cercare di sopprimere il cattivo Barbe-Bleue (ricco: aristocratico corrotto) è forse un ingombro già per il lavoro di Maeterlink, sicuramente può diventarlo per l’opera di Dukas. La messinscena di Àlex Ollé mantiene una sostanziale aderenza alla linea del testo, ma mentre introduce un’intelligente drammaturgia parallela che non si sovrappone all’intreccio – immaginando un banchetto di nozze di Ariane e Barbe-Bleue –, taglia il “superfluo sociale” parificando le classi degli attori in gioco: tutti ricchi e ben vestiti. Senza insistere più di tanto neanche sull’abbigliamento deprimente delle mogli segrete e recluse, che il libretto dell’opera vorrebbe vestite di stracci e che qui, nelle belle scene geometriche di Alfons Flores, indossano più opportune tunichette. Con ciò si ottengono due effetti collegati. In primo luogo, dal punto di vista dell’eloquenza della forma drammaturgica, si rilevano, amplificano e in qualche caso si arricchiscono con flash-back e inserti onirici le poche azioni dell’opera: l’arrivo degli sposi, i loro contrasti, la risoluzione di Ariane alla ricerca della verità, il rapporto di affetto e complicità instaurato da Ariane con le altre cinque mogli scoperte nella stanza segreta e infine condotte dall’impavida eroina all’aperto, nel cortile del castello. Fino al momento cruciale del finale, dove Ariane stessa presta soccorso a Barbe-Bleue aggredito per le sue scelleratezze, allontana gli ospiti – fra cui un “salvatore” sin troppo solerte che, trovandosi “in ballo”, dopo aver picchiato Barbe-Bleue vorrebbe completare il suo mandato cercando di sedurre la protagonista – e tuttavia, pur amando ancora il marito, sceglie la libertà e l’indipendenza. Invece le cinque mogli segrete e segregate, con Barbe-Bleue ormai non solo momentaneamente inerme ma in qualche modo trasformato dal confronto con Ariane, riabbracciano volontariamente il loro destino di sottomissione, qualunque esso sia. In secondo luogo, l’altro valore positivo del lavoro di Àlex Ollé è di far risaltare i temi essenziali, metastorici e fondamentalmente interiori di questa rilettura simbolista del mito, nella direzione già ben indicata in un testo lucidissimo vergato nel 1910 dallo stesso Dukas, che così tratteggia la sua Ariane: «la sua rivolta non ha niente di ragionato, di teorico. Non è in virtù di una convinzione femminista che ella agisce ma per l’espansione di una natura superiore, naturalmente buona e attiva, e perché ella crede che le altre le rassomiglino. Ella non odia Barbe-Bleue, al contrario lo ama come ama ogni forza della natura. Ma impone a questa forza il suo limite, che è la libertà, ugualmente naturale, di quelle che lui vuole asservire, e già dalle prime parole ella lo domina». In linea con questi assunti, il nuovo allestimento di Lione rilancia un’opera che sostiene, non nascondendone la problematicità, l’ideale universale di una libertà reale e non travestita da mero comfort di vita. A fronte di questo esito originale e allo stesso tempo fedele, possiamo immaginare che l’opera funzioni bene anche con altre idee registiche; in realtà Ariane et Barbe-Bleue ha forse un solo aspetto di realizzazione veramente ostico: il tour de force richiesto alla protagonista. Ci vuole infatti una cantante di grande capacità e grande resistenza per il ruolo di Ariane, che qui ha più da temere dalla presenza di due ore in scena, cantando quasi di continuo, che da qualsiasi marito inquietante, quand’anche con la barba blu. Katarina Karnéus sostiene la prova con grande padronanza, sicurezza nell’intonazione e dominio dei registri, e si muove a suo agio nella cornice elegante della messinscena e nel tessuto sonoro della splendida orchestra di Lione, ben diretta da Lothar Koenigs. Le manca solo il passo in più di una mimica più espressiva, mancanza che qui è peraltro accentuata dall’opera in streaming e dai suoi primi piani innaturali. Accanto alla Karnéus, in un cast tutto di alto livello, oltre a Tomislav Lavoie (Barbe-Bleue) che ha decisamente la physique du rôle (ma che a dispetto del titolo, in Ariane et Barbe-Bleue incombe più di quanto sia presente), svetta Adèle Charvet, nel ruolo importante e intenso di Selysette. L’allestimento della Fura dels Baus, oltre che ai significati profondi dell’opera, si accorda all’eleganza e alla sontuosità di una partitura sapiente, dove Dukas dà una prova virtuosistica di “sinfonismo operistico”, duttile a cogliere sensi e sovrasensi del testo, ma anche a offrirsi come autonomo e seducente organismo musicale. Ovviamente sarebbe probante registrare la reazione di un pubblico in teatro, ma dallo streaming sembra che quest’opera possa ambire a un’attenzione eminente fra i lasciti del Novecento operistico, dove ancora c’è molto da riscoprire e riproporre.
Se ci sono diversi aspetti lodevoli di questo Festival 2021 del teatro di Lione, che arriva sullo scorcio del mandato di Serge Dorny come direttore generale (Dorny andrà a dirigere l’Opera di Stato bavarese a Monaco), il più apprezzabile di tutti è quello di aver tenuto lontano le sregolatezze del talento di Andriy Zholdak dalla ripresa della raffinata opera di Dukas, lasciandogli invece spazio in un’opera del Novecento che per fortuna è già più che nota in realizzazioni rispettose della sua concezione originaria. Il castello di Barbablù di Bartók (nella foto di copertina) è infatti riletto da Andriy Zholdak con un approccio registico dirompente, prima che per lo “stile”, per l’invasività della messinscena sulla drammaturgia. Zholdak non conosce mezze misure: due anni fa, sempre a Lione, la sua regìa di un’opera rara, L’Enchateresse (Чародейка) di Čajkovski, era stata memorabile. Stavolta a nostro avviso Zholdak manca il colpo, come peraltro capita spesso a chi è nato per produrre quando si mette anche a teorizzare (o, peggio, a entrare in una teorizzazione concepita da altri). Poco più di cento anni fa Alexander Skrjabin – per il rispetto che Zholdak merita, citiamo a confronto il fuoriclasse dei creativi propensi a diffondere messaggi di palingenesi universale – trovò nelle leggi della fisica un ostacolo a diffondere la sua predicazione ai pescatori direttamente in piedi sul lago di Ginevra, performance che riteneva plausibile nonché adatta alla sua statura messianica di uomo e di artista. Qualcosa nelle prove evidentemente andò storto: alla fine Skrjabin ripiegò su una barca, da cui ergersi e diffondere il suo verbo. Zholdak deve avere avuto invece l’impressione che tutto filasse liscio nel concepire questo suo Castello di Barbablù ambizioso come una predicazione a pelo d’acqua. Certo, dietro ogni regista c’è anche un’idea, un concetto o una teoria, ci mancherebbe, ma qui nell’intenzione creativa originaria è racchiuso un presuntuoso didascalismo, ai limiti della riscrittura concettuale della stessa idea di regia d’opera. L’avvisaglia di naufragio estetico si annuncia infatti già nella scelta di proporre un doppio spettacolo: due Barbablù consecutivi, così da mostrare al pubblico l’opera in due visioni registiche diverse. A quanto pare l’idea originaria del doppio Barbablù è di Dorny e del drammaturgo Georges Banu; ad essa si è accodato Zholdak, con tutto il suo talento selvaggio, ma solidarizza a questa premessa bizzarra anche la parte musicale, dove il direttore Titus Engel partecipa al cimento con una prima parte in cui le scelte di agogica e dinamica snoderebbero, nelle intenzioni, una resa dal suono più incisivo, adeguato a quanto si vede in scena, e una seconda in cui la stessa musica dovrebbe risuonare più morbida, con nuances più calibrate su una protagonista dalla voce più dolce e una scena da cui sono scomparse una parte delle trovate di Zholdak. A ben vedere, più tangibilmente delle differenze tra le due esecuzioni consecutive, qui già la prima parte restituisce una versione meno aspra del consueto, con un suono che tende a esaltare gli aspetti timbricamente più chiari della partitura di Bartók. Quanto alle due cantanti scelte per le due Judith, entrambe di buon livello, le differenze rientrano nella paletta di possibilità vocali che il ruolo consente. A Eve-Maud Hubeaux, che canta bene nel Barbablù I, succede la voce più rotonda di Victoria Karkacheva nel Barbablù II, più “etereo” (nelle intenzioni). Due Judith ma un solo Barbablù, Károly Szemerédy, dalla voce bella, più calda e suadente che direttamente minacciosa. Zholdak ha attuato solo in parte la sua idea sull’idea: gli sarebbe piaciuto, come dichiara in un’intervista, anche un Barbablù III, dove alla fine il canto di una Judith/sirena avrebbe trasformato Barbablù in una donna risucchiata dal suo stesso desiderio. Anche se Szemerédy/Barbablù non ha provato l’ebbrezza del cambio di genere – dopo aver avuto quella di ospitare nella sua dimora, oltre all’esploratrice Judith, due donne giovani, un’anziana fautrice dell’autoerotismo, una bambina precocemente capace di efferatezze, un trans e due gay –, quanto realizzato basta per risucchiare il lavoro di Bartók in un allestimento che ne fa solo il pretesto per mettere in scena una pièce ben diversa. Superato lo specchio del prologo, si entra in una casa degli orrori fatta di vari ambienti, tra cui una cucina che sarebbe già orrenda senza le eloquenti macchie di sangue sparse dappertutto e dei bagni da stamberga post-sovietica, ma anche un corridoio di una certa allure sul quale insistono delle porte che sin dall’inizio si possono aprire agevolmente per svelare le loro delizie. Delizie umane troppo umane, ça va sans dire: sadismi, sventramenti, rapporti gay, defecazioni nel vasino con susseguente, delicata e goduriosa aspersione del contenuto (ancora marronastro, seppure allungato dallo champagne) sul corpo nudo del defecante legato, balletti teneri dei protagonisti mentre attorno ruota ogni sorta di eccesso degli altri personaggi inventati. Il catalogo del perverso, che qui è il correlato dell’amore, può rimandare a vari riferimenti cinematografici direttamente congruenti al contenuto, ma ci sembra che l’archetipo formale del primo Buñuel, quello più surreale, costituisca la cifra segreta di molte idee di Zholdak. In ogni caso se a volte, nelle realizzazioni più riuscite di Zholdak, la paradossale concretezza del suo segno teatrale instaura un rapporto vivo con il testo, in questo caso lo iato tra la ricerca dei due (presunti) sensi di un’opera e la dinamica della sua drammaturgia è insostenibile. Che si vedano sadismi e quant’altro esplorando le stanze del Barbablù I, o ci si limiti a stazionare nel corridoio nel Barbablù II che si vorrebbe più introspettivo (dove transitano ancora alcune presenze oltre a Judith e Barbablù, ma risparmiandoci urla, torture sessuali e uccisioni), si annulla comunque la freccia temporale su cui poggia l’opera. Quella progressione di chiave in chiave, di porta in porta, quel metaforizzare un viaggio nell’inconscio, quella feconda sproporzione tra la lettera del testo e la costante, profonda densità della musica, tutti gli elementi che fanno del lavoro di Bartók un vertice del Teatro musicale del Novecento, vengono completamente annullati. Il castello di Barbablù diventa solo colonna sonora.
A completare il “Festival Femmes libres”, un terzo titolo, Mélisande, un progetto da Pelléas et Mélisande di Maeterlink con musiche di Debussy e Sibelius, e regìa di Richard Brunel (che a breve succederà a Dorty nella direzione del Teatro di Lione). La pandemia ne ha permesso per ora solo una breve anteprima. In futuro anche altre produzioni programmate in questi due anni paradossali, flagellati dal covid, saranno riprese dal vivo a Lione. Speriamo che si scelga bene, e che non attecchisca l’idea del doppio spettacolo per le opere brevi. L’avvertenza preventiva che sconsigliava ai minori di sedici anni la visione del Castello di Barbablù indica un’attenzione al destinatario potenzialmente fatale, tanto più qualora queste buone intenzioni dovessero invadere con gli stessi concetti le parti più didattiche dell’attività dei teatri d’opera, che spesso si rivolgono direttamente al pubblico del futuro. Immaginiamo con timore una doppia Cavalleria rusticana per grandi e per bambini dove magari, nell’atto riservato ai più piccoli, dei registi creativi come Zholdak potrebbero sostituire lo sbudellamento tra Alfio e Turiddu con una simpatica e veristica gara di rutti…