Ogni nuova apparizione di Maurizio Pollini di fronte al pubblico ci pone in un duplice stato d’animo. Da un lato la certezza, quasi consolatoria, di ascoltare una voce quasi immutata nel tempo che ci accompagnerà in un viaggio di estrema consapevolezza nel repertorio da lui amato fin da epoche oramai molto lontane. Dall’altro la preoccupazione che le forze del pianista quasi non tollerino il peso di un’eredità oramai difficile da sostenere, per l’enorme impegno psicofisico richiesto dai programmi ancora presentati ai giorni nostri.
L’ascolto di Pollini nella sala del Conservatorio di Milano ha sempre avuto qualcosa di magico, perché è fuori dubbio che l’acustica sia in questo caso molto più adatta (di quella del Teatro alla Scala) a trasmettere in tutta la sua ricchezza l’intensità di un suono che ha sempre avuto pochi confronti. Si aggiunga il fatto che il luogo è storicamente una sorta di culla delle esperienze del Pollini studente, un edificio che ha visto la presenza di docenti famosi, di ancor più famosi esecutori che hanno certamente influenzato gli ascolti musicali del giovane pianista e il quadro diventa perfetto per farci rivivere un momento di grande storia della cultura musicale milanese.
Il concerto riprendeva un appuntamento cancellato mesi fa a causa della pandemia ed era dedicato alle figure di Claudio Abbado e della sorella Luciana Pestalozza, che hanno lasciato il segno nell’organizzazione e nello spirito di tante stagioni musicali della città. E forse anche per questo motivo l’atmosfera della serata ha giovato allo svolgimento di un impaginato complesso ed estremamente difficile da sostenere, con degli esiti che non ascoltavamo da tempo anche ricordando le ultime apparizioni di Pollini nel più consueto ambiente scaligero. L’altra sera ci si è davvero trovati in presenza di una sorta di sintesi del Pollini maturo, diremmo estremo, sia per la scelta del repertorio che per i risultati eccellenti che si sono ascoltati. Uno Schönberg (i Klavierstücke op. 11 e op. 19) dove si è ammirata la mescolanza tra il messaggio avveniristico di una scrittura del tutto originale e il ricordo di una alta tradizione tardoromantica che è pur avvertibile e che Pollini ci è sembrato sottolineare non tanto come carattere stilistico quanto nel senso di un coinvolgimento personale estremamente avvertibile e contagioso.
Nell’ottica di un ricordo di affetti ci è sembrata poi l’esecuzione di … sofferte onde serene … di Nono, ricordo che non era solamente nell’animo del pianista ma anche di tutti coloro che, per ragioni di età, si erano trovati in presenza delle prime esecuzioni milanesi di questo lavoro densissimo di significati. Il ritorno al romanticismo infuocato di Schumann, forse il momento che dal punto di vista esecutivo poteva rivelarsi piuttosto rischioso perché includeva quella Fantasia op. 17 che era stata un vero e proprio cavallo di battaglia del Pollini “prima maniera” ha concluso una serata di altissimo peso specifico e di evidente valore simbolico. Il pianista, dopo una splendida esecuzione di Arabeske, ha navigato nelle acque perigliose della Fantasia con un dominio tecnico ed emozionale ancora davvero ragguardevole. Missione ancora più difficile e complessa perché la Fantasia – una delle composizioni più amate da Pollini – oltre a essere un banco di prova per le proverbiali difficoltà tecniche lo è ancora di più per il coinvolgimento totale richiesto all’interprete in termini di risorse emotive.