Il programma era di quelli più che attraenti per il pubblico: la terza sinfonia (in realtà è l’ultima) di Mendelssohn e la “Pastorale” di Beethoven. Testi che molti hanno nelle orecchie ma che si prestano a letture sempre nuove, a riscoperte di mille particolari a patto che a prenderle nuovamente in mano sia un direttore che non solamente trascorre molto tempo nell’analisi delle partiture in tutte le possibili varianti arrivate fino ai nostri giorni ma che, con un’esperienza che si può ben dire a larghissimo raggio, entra nel profondo dei significati di un patrimonio sinfonico di grandezza assoluta.
Mendelssohn è uno degli autori più amati e studiati da Chailly che, lo ricordiamo, è stato Kapellmeister dell’orchestra del Gewandhaus di Lipsia, lo stesso incarico che era stato offerto al compositore nel 1835. Di Mendelssohn, i Filarmonici con Chailly avevano eseguito nel passato più o meno recente le Sinfonie nn.2,4 e 5 e questa volta hanno affrontato la cosiddetta “Scozzese” che in realtà non utilizza temi popolari originari di quella terra ma ne metabolizza i significati ricreandoli ex-novo con una fantasia e una sensibilità davvero straordinarie. Le peregrinazioni per mare e per terra nelle regioni della Scozia e delle isole Ebridi avevano già sollecitato la fantasia del musicista a riversare nuove idee nelle partiture di due Ouverture divenute ben presto famose (La grotta di Fingal e Calma di mare e felice viaggio). Queste idee trovano tuttavia una loro completa trasfigurazione appunto nella sinfonia in la minore, frutto di una lunga gestazione e completata solamente nel 1842. Eseguita per la prima volta sotto la direzione dell’autore il 3 marzo di quell’anno al Gewandhaus di Lipsia, la sinfonia venne accolta trionfalmente dal pubblico londinese nel giugno successivo, motivo che valse a Mendelssohn un’udienza da parte della giovane regina Vittoria, cui la partitura venne dedicata. La natura rapsodica, quasi di un vasto poema sinfonico, viene posta in risalto dalla consuetudine – voluta dallo stesso Mendelssohn – di eseguire i quattro movimenti dell’opera senza soluzione di continuità, volere che è stato ovviamente rispettato da Chailly ma con una urgenza del tutto particolare, come se vi fosse il timore che una minima cesura potesse spezzare l’incanto della narrazione. Il direttore ha sottolineato il carattere contemplativo dell’intero lavoro, soffermandosi però anche su numerosissimi particolari tra il tecnico e l’espressivo che a volte sfuggono all’attenzione di chi ascolta.
Chi si era accorto con tanta chiarezza del valore di quei tremoli degli archi nella parte conclusiva del primo movimento, o aveva apprezzato in questo grado il fascino tra l’allegro e il malinconico del tema dello Scherzo affidato al clarinetto (un bravo a Fabrizio Meloni)? Chailly ha affrontato in seguito con ammirevole naturalezza la partitura quasi intoccabile della Pastorale beethoveniana, una sinfonia che si ascolta oramai raramente perché entrata a far parte di quei lavori che incutono giustamente timore ai direttori più giovani e inesperti. Anche in questo caso tutto si è dipanato con quella apparente semplicità che è in realtà il frutto di un lavoro di una vita e che ha portato i presenti a rivivere un testo così noto come se fosse davvero la prima volta. Al termine, visibilmente contenti erano sia il direttore che l’orchestra (quest’ultima in stato di grazia) applauditi lungamente da un pubblico riconoscente per la grande serata.