di Gianluigi Mattietti
Alla fine, Julius Caesar è stato un successo. La nuova opera di Giorgio Battistelli, messa in scena all’Opera di Roma ha convinto tutti, ha riempito il teatro fino all’ultima recita.
Si è detto del “colpo di genio” nella scelta di un soggetto capace di stuzzicare la curiosità del pubblico capitolino, del tema del potere, con i suoi intrighi e giochi di palazzo, sempre di attualità, del coraggio di inaugurare la stagione con una prima mondiale – davvero un bel segnale -, della consolidata collaborazione del compositore con il librettista Ian Burton (c’è il progetto di un trittico shakespeariano, con Richard III del 2004, e un prossimo Pericles, Prince of Tyre), e con il regista Robert Carsen (che ha messo in scena Richard III alla Vlaamse Opera, e CO2 alla Scala), del ruolo fondamentale giocato dal direttore Daniele Gatti, che ha creduto fino in fondo a questo progetto, collaborando attivamente al work in progress della sua realizzazione. Ma c’è di più. Battistelli, autore già di 33 opere (e una nuova, Le Baruffe, è già pronta per il prossimo febbraio alla Fenice), ha messo a punto un meccanismo operistico molto efficiente, capace di funzionare anche con una vicenda, come quella di Julius Caesar, intensa, drammatica, ma fatta più di dialoghi e monologhi che di azione. Ha individuato una precisa retorica operistica, basata su un calibrato equilibrio tra testo, scrittura vocale e orchestra, affinata nel corso degli anni, funzionale alle dinamiche del teatro, e molto personale, come un marchio di fabbrica. E qui ha scelto una drammaturgia musicale di tipo psicologico, incentrata più che sull’intrigo politico, sul dubbio “amletico” che attanagliava e tormentava tutti i personaggi, e sui cupi presagi che attraversavano l’intera vicenda.
«La scrittura vocale si dipanava come un moderno “recitar cantando”, senza increspature liriche, e senza grandi differenziazioni tra i vari personaggi (a parte il registro), come un grande recitativo focalizzato sul testo»
Il libretto di Burton era modellato per garantire un ritmo teatrale sempre incalzante, e un’atmosfera sinistra, con un culmine nell’assassinio di Cesare alla fine del primo dei due atti, e con la presenza, nel secondo, dello spettro di Cesare, che non appariva solo a Bruto prima della battaglia di Filippi, ma tornava a più riprese come una “ombra vendicatrice”, per costringere Bruto e Cassio al suicidio, e per celebrare insieme ad Ottaviano il proprio trionfo e la propria vendetta nell’ultima scena dell’opera. Il testo di Shakespeare è stato molto accorciato e riadattato, aggiornando l’inglese antico, riducendo i personaggi, inserendo alcuni versi di Orazio e Catullo (per il coro nell’iniziale festa dei Lupercali), un breve lamento di epoca elisabettiana (per il servo di Bruto), un frammento dal De Bello Alexandrino (per lo spettro di Cesare). La scrittura vocale si dipanava come un moderno “recitar cantando”, senza increspature liriche, e senza grandi differenziazioni tra i vari personaggi (a parte il registro), come un grande recitativo focalizzato sul testo (sempre comprensibile, anche per la sostanziale assenza di concertati), per cogliere tutta l’intensità dell’eloquio drammatico. Tutt’altro che monotono, questo recitar cantando acquistava colori diversi e diverse connotazioni espressive grazie alla punteggiatura orchestrale, a quel vasto campionario di gesti, timbri, interiezioni strumentali, collaudato e affinato in tutte le opere precedenti, che riusciva a caratterizzare ogni singola frase, ogni situazione drammatica. La pasta orchestrale era complessivamente densa e cupa, in sintonia con l’atmosfera generale dell’opera, ma mai statica, sempre pulsante, con una materia granulare, fatta di accordi ribattuti e nervosi, di sorde turbolenze, di pulviscoli riverberanti, con una costante presenza delle percussioni (disposte anche sui palchi laterali), con ingegnosi effetti di sottrazione, come l’agghiacciate silenzio che accompagnava la scena delle pugnalate.
Gatti ha colto nel profondo questo legame simbiotico tra parola e suono orchestrale, e così ha fatto Roberto Gabbiani nell’istruire il coro che si insinuava nella vicenda come un rumore di fondo, dietro le quinte, o come folla volubile, priva di certezze come tutti i personaggi, pronta a lasciarsi sedurre dall’oratore di turno. Ben calati nei rispettivi ruoli tutti i cantanti, a partire dal basso Clive Bayley, un Cesare anziano ma spavaldo, molto credibile nel suo ruolo di leader. Il baritono Elliot Madore era un Bruto aitante e tormentato, molto intenso nei suoi lunghi monologhi; il tenore Julian Hubbard restituiva bene il carattere insinuante e determinato di Cassio; il mezzosoprano Ruxandra Donose, unica donna nel cast, interpretava con voce copiosa e grande slancio l’inascoltata Calpurnia; il baritono Dominic Sedgwick era un Antonio dall’espressione nobile; il tenore Alexander Sprague, nei panni di Ottaviano, alla fina dell’opera intonava una sorta di salmodia che suonava, sorprendentemente, come un grande arioso. La regia di Carsen era molto attenta alla gestualità dei personaggi, una gestualità molto naturale, lontana da ogni cliché operistico, adatta alla folla dei romani in abiti moderni, e ai senatori in giacca, cravatta e valigetta, che nella guerra civile, al posto del soprabito, indossavano dei giubbotti antiproiettile (costumi di Luis F. Carvalho). Tutti si muovevano, in perfetta sintonia con la musica, intorno a una grande struttura semicircolare (scene di Radu Boruzescu) che richiamava molto da vicino quella del Richard III: in quel caso si trattava di un circo, qui era l’aula del Senato (forse il circo della politica?) con gli scranni in velluto rosso che accoglievano senatori impettiti nel primo atto e cadaveri nel finale dell’opera. Questa grande struttura, ruotando, si presentava come una impalcatura che faceva da sfondo alle scene di guerra, rovescio simbolico dei giochi del potere, abitato da fumi, ombre, luci sinistre. E fantasmi.