di Luca Chierici
La Open Academy della discordia, ossia l’oggetto della decisione da parte di Riccardo Muti di tenere l’annuale sua Master Class operistica proprio nella Milano catalizzata dall’apertura della Scala, ha lasciato un po’ l’amaro in bocca a chi vorrebbe che le questioni artistiche fossero esenti da qualsiasi tipo di problema attinente alla sfera personale.
Non ritorniamo più sullo spiacevole qui pro quo (chiamiamolo così) e concentriamoci sul risultato di un’operazione di indubbio valore. La Fondazione Prada, insediatasi oramai da qualche anno in una zona a sud-est di Milano un tempo piuttosto degradata, ha ospitato dunque l’edizione 2021 della “Accademia dell’Opera italiana” ,che secondo la definizione ufficiale consiste nella scelta da parte di Muti di un titolo d’opera, di una selezione di musicisti da tutto il mondo (di età tra i diciotto e i trentacinque anni) diplomati in direzione d’orchestra o pianoforte, e da una serie di prove di lettura e d’assieme con l’Orchestra Cherubini, i cantanti e il coro. Il tutto allo scopo di attuare un processo di trasferimento di esperienze tra il Direttore e i partecipanti, dove “i segreti della costruzione musicale passano dal maestro agli allievi in una simbiosi naturale, che li porta, insieme, alla fase finale dell’interpretazione”.
Il titolo scelto quest’anno era Nabucco, opera particolarmente cara a Muti anche perché aveva costituito la prima sua scelta nella veste di direttore Musicale della Scala, nell’oramai lontano 7 Dicembre del 1986. Le due serate conclusive del progetto hanno visto Muti dirigere Nabucco in forma integrale e successivamente mettere alla prova cinque allievi ulteriormente selezionati nell’esecuzione quasi integrale del titolo, là dove la partitura veniva divisa (tramite estrazione a sorte) in altrettante sezioni consecutive.
Si è trattato di due serate (14 e 15 Dicembre) davvero emozionanti a scapito della cattiva acustica di una sala non espressamente nata in vista di performance di questo tipo, con l’amplificazione di tutte le parti coinvolte e un non secondario effetto di rimbombo delle sonorità. Ma i risultati del progetto si sono fatti sentire e un pubblico selezionato ha potuto ascoltare la partitura verdiana secondo diversi punti di vista, ovviamente calibrati in base a un processo di “trasferimento di imprinting” dal maestro agli allievi che era palesemente riscontrabile. Nella prima serata – molte le personalità presenti, tra le quali Sala, Franceschini, Monti e persino il sovrintendente scaligero Meyer – si è assistito a una lettura tesa, asciutta, ma sempre appassionata da parte del grande direttore, che oggi esibisce in minor misura un gesto barricadiero e decisamente volitivo per fare posto a un approccio molto più intimo e ancora più immedesimato nel testo, quasi a sottolineare una discendenza per li rami tra se stesso e addirittura Giuseppe Verdi, attraverso la mediazione di Antonino Votto, docente di Muti e a propria volta assistente di Toscanini. Nella serata successiva si sono ascoltate nell’ordine le interpretazioni di Cj Wu, (Taiwan, 1985), Elinor Rufeizen (Israele, 1987), Cristian Spataru (1993, Romania), Henry Kennedy (1996, Gran Bretagna) e Giuseppe Famularo (1991, Italia). Se si deve per forza esprimere un parere personale, del resto condiviso da gran parte del pubblico e probabilmente dallo stesso Muti, la palma di una ideale preferenza va certamente al candidato italiano, di origine siciliana, che si è imposto con una grinta, una consuetudine con la bacchetta e il rapporto con l’orchestra, i cantanti e il coro che era ben visibile fin dai primi momenti del suo intervento. Bravi tutti gli altri, con una menzione speciale per Cristian Spataru, che tra le altre cose ripeteva il testo completamente a memoria nell’atto di convogliare il proprio gesto all’assieme. In entrambe le serate hanno ovviamente ricoperto un ruolo primario la collaudatissima Orchestra Cherubini, i solisti di canto e il coro, quest’ultimo istruito da Antonio Greco.
Nelle due esecuzioni, i solisti di canto hanno messo in campo la propria sensibilità e i risultati del coaching del direttore contribuendo a una esecuzione davvero memorabile. Tra tutti spiccavano il “senior” basso Riccardo Zanellato, paterno e risoluto Zaccaria già da lungo tempo collaboratore di Muti e l’eccezionale baritono rumeno Serban Vasile, Nabucodonosor dalla voce fresca e corposa. Azer Dada, tenore di origine azera, era un Ismaele giovane e battagliero; Francesca Di Sauro, mezzosoprano che aveva già partecipato all’Opera Academy nel 2020, era una Fenena un poco timida e con una voce dal timbro cristallino, ma perfettamente inserita nel ruolo. Altra rivelazione era il soprano olandese Gabriëlle Mouhlen, che ha sostituito all’ultimo momento Anastasia Bartoli e che si è imposta come una Abigaille davvero erede delle grandi cantanti che hanno sostenuto in passato questo ruolo di proverbiale difficoltà. Accanto a loro, nei ruoli minori, si sono segnalati Andrea Vittorio De Campo (Il Gran Sacerdote), Giacomo Leone (Abdallo) e Vittoria Magnarello (Anna).
Nella cerimonia finale, al momento della premiazione dei partecipanti, Muti ha rivolto una particolare menzione di lode anche agli allievi nel ruolo di maestro collaboratore (inutile qui ripetere le sagge parole del direttore attorno all’importanza strategica di costoro nel lavoro di preparazione dei cantanti). Muti ha anche ribadito – non senza un’ombra di polemica nei confronti della recente “prima” scaligera – la necessità di riassegnare al direttore d’orchestra un ruolo centrale (certo non tirannico, ma di coordinamento e di visione globale) che con il tempo si sta definitivamente perdendo, sempre più a favore di una fin troppo evidente preferenza nei confronti dell’allestimento, soprattutto nella persona del regista. E ha invitato i giovani partecipanti al corso a non avere timore nel sostenere con coraggio le proprie scelte senza compromessi, come egli stesso aveva fatto in gioventù nel momento in cui non si era più trovato d’accordo con le direttive di importanti istituzioni con le quali collaborava.