di Attilio Piovano
Grande è stata l’emozione (e la gioia sincera) di ritornare in sala, al Regio di Torino, la sera di sabato 12 febbraio 2022, dopo lunghi mesi di chiusura: per le note vicende legate alla pandemia, ma altresì per il ‘fermo’ del teatro dovuto a rilevanti lavori di adeguamento tecnologico del palcoscenico (e non solo) che costringeranno poi ancora ad una nuova chiusura nella tarda primavera.
Titolo prescelto per questa singolare ‘apertura’ 2022 la pucciniana Bohème che, come noto, proprio a Torino ebbe la sua fortunata e acclamata première la sera del 1° febbraio 1896; a dire il vero c’era stata giorni fa, il 27 gennaio scorso, in concomitanza con la Giornata della Memoria, la toccante ‘prima’ torinese del Diario di Anna Frank, opera monologo con libretto e musica di Grigorij Frid, proposta in un nuovo allestimento del Regio, col patrocinio della torinese Comunità Ebraica, per la regìa di Anna Maria Bruzzese e la direzione di Giulio Laguzzi, protagonista l’eccezionale Shira Patchornik, con le evocative scene di Claudia Boasso: spettacolo cui meritava dedicare almeno un cenno, sia pure fuggevole.
E dunque Bohème, immarcescibile evregreen che tuttora legittimamente continua a sedurre le platee di tutto il mondo: primo capolavoro assoluto, si sa, dopo Manon Lescaut, del futuro autore di Tosca e Butterfly, Fanciulla e Turandot. Ed è proprio a quella primigenia messa in scena che esplicitamente intende rifarsi questo nuovo allestimento del Regio, riproponendone le suggestive scene e costumi, ovvero riprendendo i celeberrimi, arcinoti e citatissimi bozzetti originali di Adolf Hohenstein intrisi di pittoresca naïveté custoditi dall’Archivio Storico Ricordi, curatrice delle scene Leila Fteita, curatrice dei costumi Nicoletta Ceccolini, pittore scenografo Rinaldo Rinaldi.
Se una parte del pubblico, forse minoritaria, ignorava la faccenda – così è parso al critico cronista che firma queste note, captando al volo frammenti di conversazione in sala – sicché si è trovata a ‘visionare’ uno spettacolo giudicandolo poi più o meno incautamente e ingenuamente alla stregua di un ‘nuovo’ allestimento qualsiasi, una percentuale (auspicabilmente alta) era invece di certo informata dai media della circostanza. Sull’opportunità o meno di riprodurre oggidì uno spettacolo per così dire storico si gioca la valutazione dell’operazione stessa. Per una volta sia concesso al critico di mantenere almeno in parte un tono asettico. Alcuni manifestavano l’entusiasmo per una sorta di ripristino di una presunta originalità, laddove altri – senza mezzi termini – esprimevano perplessità dinanzi ad uno spettacolo obsoleto e ‘ottocentesco’ dopo centinaia e centinaia di allestimenti dissimili, dai più rispettosi ai più provocatori che nel mondo è accaduto di incrociare.
La regìa di Paolo Gavazzeni e Piero Maranghi, conseguentemente, punta su maniere e gestualità prevedibilmente rassicuranti e allora i camerieri che spolverano le sedie al Caffè Momus, il plateale infrangere un piatto da parte della capricciosa Musetta che ne cita il puzzo di rifritto, e così pure dicasi dell’allegra baldoria dei quattro giovani in apertura, allorquando ‘liquidano’ il padrone di casa Benoît; il loro improvvisare la buffonesca festa da ballo in apertura del quadro finale e via elencando. Tutto molto intuibile, secondo canoni precostituiti, come giusto (forse), con appropriati movimenti delle masse, e dunque i monelli e il passaggio della banda militare nel quadro del Quartiere Latino. Valide e funzionali le luci di Andrea Anfossi riprese da Lorenzo Maletto dopo l’edizione in streaming. Pur tuttavia quell’aver ‘isolato’ con una luce livida la ‘Gelida manina’ lasciando al buio l’intera scena, riprendendo poi l’espediente nel quadro finale, laddove Mimì e Rodolfo rievocano quel loro iniziale incontro e il primigenio sbocciare del loro amore, beh ecco, aveva un che di eccessivamente didascalico. Il pubblico è assai più intelligente di quanto talora lo si immagini. Idem sapeva di déjà-vu il ‘fermo immagine’, con l’intero gruppo delle masse ‘bloccate’ all’improvviso nel secondo quadro, quasi un fotogramma cinematografico ‘fissato’ sulla scena: in concomitanza con la battuta-minaccia da parte di un Rodolfo, al cospetto della spregiudicata Musetta, un po’ maschilista nei confronti della docile Mimì («Sappi per tuo governo che non darei perdono in sempiterno»).
Buono il cast. Bene la Mimì sbozzata da Maritina Tampakopoulos, dizione accettabile, bei fraseggi, gusto, buone emissioni, qualche piccola intemperanza timbrica qua e là, meritatamente applaudita. Applausi incredibilmente copiosi (e forse un filino eccessivi, a sospetto di claque) per Valentin Dytiuk, Rodolfo aitante e fin troppo sanguigno (subito osannato a seguito della sua auto presentazione «Chi son, sono un poeta»), che ebbe accenti quasi mascagnani e veristi in chiusura («Quell’andare e venire») e il suo straziante Mimì troppo urlato, con effetto di sminuire alquanto la tensione. E per una volta in molti non si sono commossi al destino baro della piccola e povera ricamatrice di fiori. Non tutto era perfetto e immacolato nell’uscita di scena del terzo quadro, col duetto dei due che promettono di lasciarsi poi solamente ‘alla stagion dei fiori’. E pazienza, sono piccole cose che nel corso delle repliche vanno a posto quando la macchina dello spettacolo è assai più oliata.
Bene poi anche il Marcello sbozzato con gusto da Ilya Kutyukhin e apprezzata la Musetta ben resa da Valentina Mastrangelo, un plauso per la ‘Vecchia zimarra’ snocciolata con correttezza e un certo qual apprezzabile ‘distacco’ da parte di Riccardo Fassi (Colline) che per fortuna non pareva prendersi troppo sul serio. Completavano il cast Vincenzo Nizzardo (Schaunard), il navigato Matteo Peirone (Benoît e Alcindoro) e Sabino Gaita (Parpignol).
Un plauso davvero speciale per l’efficacia della performance e la non comune precisione negli attacchi da parte del Coro di Voci Bianche del Regio, come sempre ottimamente istruito dall’esperto e raffinato Claudio Fenoglio. Bene anche il Coro guidato con mano sicura da Andrea Secchi ed ottima la resa dell’Orchestra per la direzione di Pier Giorgio Morandi: una direzione pimpante e ‘giovane’, in molti tratti effervescente, ma attenta a porre in luce le mille preziosità timbriche poste in atto da Puccini, una direzione talora con qualche singolare scelta agogica (per dire, è parso un po’ troppo lento e strascicato l’esordio del terzo quadro, con i famigerati intervalli di ‘quinta vuota’ a rendere il senso del paesaggio algido e il fioccare del nevischio) mentre altrove certi apici dinamici potevano forse venire un poco attenuati e taluni dettagli maggiormente messi a fuoco. Ma non sono che piccoli e trascurabili nei. Di una buona direzione si è trattato, nel complesso, analitica e per grandi pennellate nel contempo, di fatto funzionale al tutto.
Complessivo (e a ben guardare meritato) successo per uno spettacolo che – a onor del vero – è stato un momento di ripresa, di rinascita, per dirla con Berlioz, di Retour à la vie. E di questi tempi, ben venga.