di Luca Chierici
Assente dal Teatro alla Scala dal 1942 ma ben rappresentata altrove (solamente negli ultimi anni si contano interessanti produzioni a Vienna, al Metropolitan e da noi a Venezia e Torino) Thaïs di Massenet ha riscosso un nuovo ampio successo grazie innanzitutto ai valori musicali di un’opera che racchiude invenzioni preziose, alla presenza di voci che rendevano stilisticamente alla perfezione lo specifico carattere di un virtuosismo così differente dalla tradizione italiana e a una regìa cui forse si sarebbe chiesto di agire per sottrazione, anche se l’argomento si presta a rivisitazioni di vario tipo vista la duplice natura di elementi sacri e profani che si mescolano in una scabrosa mistura che tanto aveva colpito il pubblico di quei tempi.
Gli stessi elementi che, diciamolo pure in tutta franchezza, non sono stati certo estranei al successo di pubblico odierno, come allora curioso di fronte a suggestioni visive di più o meno celate nudità intente a praticare giochi morbosi.
L’operazione Thaïs (Comédie lyrique in tre atti e sette quadri) fu davvero indovinata, giungendo in un momento tutto particolare che contraddistingue il clima artistico francese di fine secolo abbeveratosi per questo soggetto al lavoro di Flaubert (La Tentation de saint Antoine) e soprattutto all’omonimo romanzo di Anatole France pubblicato nel 1890. Da quest’ultimo, Louis Gallet aveva tratto un libretto che restituisce solo in parte le raffinatezze alessandrine del romanzo e le complesse valenze di una psicologia anch’essa figlia del clima culturale di quei tempi, tanto che oggi un regista sensibile come Olivier Py (ma con lui tanti altri che hanno affrontato l’opera di Massenet in questi ultimi anni) trova materiale in abbondanza per creare un intervento che fa conto ancor più sulle potenzialità del soggetto che sui suoi reali contenuti originari.
Il pericolo insito in operazioni di questo tipo è quello appunto di sfruttare sin nei dettagli suggestioni di varia natura che rischiano di confondere le idee allo spettatore invece che guidarlo con un ordinato commento gestuale e visivo attraverso le vicende piuttosto complicate del libretto. Particolari come la trasformazione finale dei Cenobiti in elementi di un Esercito della Salvezza, la stessa caricatura del personaggio di Nicia un poco troppo sopra le righe, amoreggiante con un avvenente mimo, e tanti altri dettagli sono apparsi relativamente inspiegabili. Come la comparsa di grandi scritte al neon che riportavano i versi liturgici del “Libera me domine” o quelli danteschi che aprono la “Commedia” apparivano quasi come un omaggio non richiesto alla rappresentazione dell’opera in suolo italico. Il tutto era certamente appesantito dalle scene di Pierre-André Weitz, che sceglieva per i costumi la contrapposizione tra il rosso fiammante rappresentativo del Vizio e il nero decisamente lugubre della redenzione e della morte della protagonista.
Felice riscoperta è stata invece quella di Lorenzo Viotti, immerso completamente nella non facile partitura ereditata dall’esempio del padre, che aveva realizzato lo stesso titolo alla Fenice una ventina d’anni fa. Viotti è stato accolto al suo apparire da un lungo fischio preventivo da parte di un loggionista, che non faceva certo ben sperare nell’esito della serata. Al contestatore è andata male perché il verdetto del pubblico è stato come si diceva ben al di là delle aspettative e si è concretizzato in applausi a scena aperta – ove possibile – e in un trionfo finale con lunghe ovazioni.
Si diceva che il ruolo principale richiede doti vocali di primissimo piano e non assimilabili a una tradizione nostrana. Marina Rebeka, già diva scaligera, ha evocato quelli che dovettero essere i caratteri stupefacenti della protagonista originale, il soprano Sybil Sanderson, e ha conquistato il pubblico con una non certo facile immedesimazione nel ruolo e con prodezze di emissione che non si ascoltavano da tempo. Accanto a lei il baritono Lucas Meachem, che sostituiva l’originale presenza di Ludovic Tézier, ha dato voce a un integerrimo e allo stesso tempo combattuto Athanaël pur senza strafare in un ruolo che peraltro non richiede certo i virtuosismi della compagna tentatrice. Applauditi i ruoli secondari di Nicia e Crobyle (i fratelli Giovanni e Caterina Sala), di Myrtale (Anna-Doris Capitelli), e di Palémon (il basso In Sung Sim), il coro istruito da Alberto Malazzi e i protagonisti delle danze – aggiunte da Massenet per la seconda versione dell’opera, comunemente eseguita – nelle quali spiccavano i ballerini solisti Emanuela Montanari e Massimo Garon. E un applauso particolare sarebbe stato opportuno indirizzare a Laura Marzadori, primo violino, che ha intonato meravigliosamente il tema conduttore della famosa Méditation. Inspiegabilmente la Marzadori non è stata convocata sul palcoscenico con tutti gli altri protagonisti al termine della serata.