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La Biennale di Monaco di Baviera

Foto © Smailovic

di Gianluigi Mattietti
6 Giugno 2022
in XX e XXI
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Home XX e XXI
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di Gianluigi Mattietti

Fondata trentaquattro anni fa da Hans Werner Henze con l’idea di far rinascere l’opera e il teatro musicale, la Biennale di Monaco è oggi una rassegna dal taglio decisamente sperimentale, in particolare da quando, nel 2016, hanno assunto la direzione Manos Tsangaris e Daniel Ott, che hanno cominciato a considerare il teatro musicale come una forma naturalmente ibrida, dove mescolare espressioni artistiche diverse, reale e virtuale, analogico e digitale, spettacolo e vita quotidiana.

Un teatro musicale mai rivolto al passato, ma inteso come strumento attuale, capace di esplorare tutte le intersezioni tra suono, voce, corpo, immagine, parola. E non per pochi appassionati, ma aperto a un vasto pubblico. In questo festival, fatto solo di commissioni e prime mondiali, si sono esplorati anche nuovi spazi, per un teatro spesso concepito come un percorso guidato. Spuren (tracce) di Polina Korobkova, portava ad esempio il pubblico in un tour musicale nei sotterranei della Musikhochschule (l’edificio fu progettato dall’architetto Paul Ludwig Troost per Adolf Hitler come “Führerbau”, e quei sotterranei usati come bunker per nascondere opere d’arte): in quegli angusti cunicoli si intrecciavano voci e movimenti di cinque cantanti e due attrici, creando veri e propri tableaux che comparivano all’improvviso dalla penombra, e il pubblico si muoveva senza una precisa direzione, come in un labirinto malcerto, punteggiato da suoni e da apparizioni. Nei sotterranei del centro culturale Einstein è stato allestito invece Davor (prima) di Yoav Pasovsky, con la regia e i video di Robert Lehniger: ancora un percorso labirintico, che chiamava in causa dodici attori, concepito come una riflessione sul tema razzismo, una live performance che rompeva la classica separazione tra palcoscenico e pubblico e immergeva gli spettatori in una realtà virtuale, molto realistica, attraverso visori e cuffie. Ciascuno era così immerso in situazioni e scene osservate dalla prospettiva delle vittime di atteggiamenti razzisti, in un ristorante, in una scuola, in una palestra, su un autobus (in quell’episodio gli spettatori sedevano su praticabili mobili che venivano spostati simulando i sobbalzi del mezzo), con uno sfondo musicale che giocava su sonorità ambientali e materiale documentario. Nel percorso di Good Friends Club di Nicolas Berge e Lucia Kilger, più giocoso e “fantascientifico”, anche per il contesto sonoro, gli spettatori erano coinvolti in varie attività, anche ludiche, che venivano poi filmate e condivise in uno specifico network.

Altri spettacoli avevano un carattere più “tradizionale”, almeno nel senso che prevedevano un pubblico seduto in sala. Molto attesa, ma deludente, l’opera The Damned and the Saved della svedese Malin Bång, coprodotta con il Nationaltheater di Mannheim. Il libretto di Pat To Yan raccontava una storia di resistenza contro un regime totalitario, la vicenda di due donne che intrecciano una relazione in una prigione, dove venivano torturate – i loro ruoli erano sdoppiati tra due attrici (Maria Munkert e Jessica Higgins: bravissime nella scena iniziale in una coreografia fatta di spasmi, respiri ansimanti, gesti con le mani imbrattate di sangue) e due cantanti (Johanna Greulich ed Eva Resch). Si opponevano al regime di un sovrano dispotico, una specie di uomo-macchina che si nutriva di spazzatura, che aveva la forma di una prigione di latta, al centro del palcoscenico. Una volta uscite dalla prigione, le due donne sceglievano strade diverse, la prima riprendeva la sua vita di pasticcera, dedicandosi al cioccolato, la seconda continuava a combattere, alimentando la resistenza attraverso l’infiltrazione nei sogni (come in Inception di Christopher Nolan, c’era un professionista, un interprete dei sogni), riusciva a fare esplodere delle bombe nei sogni del re, e alla fine decideva di togliersi la vita, per evitare di essere arrestata e torturata di nuovo. La regia di Sandra Strunz dava bene forma a questa distopia totalitaria, in uno spettacolo caotico, dove i musicisti (diretti da Rei Munakata) erano parti integranti integrati nella rappresentazione scenica, non solo suonando gli strumenti, ma anche cantando e danzando. Fedele al suo rumorismo radicale e al suo approccio alla composizione insieme musicale e teatrale, la compositrice svedese intrecciava strumenti ed elettronica con i vocalizzi delle due cantanti, con la voce del raccoglitore di dati (l’istrionico attore Matthias Breitenbach), con quella dell’interprete dei sogni (il baritono Ilya Lapich, abilissimo anche nella tecnica di canto nordica del “kulning”, una miscela di suoni armonici e canto di laringe), con il suono di una kalimba (che rappresentava la scatola di raccolta dei sogni), con slogan urlati col megafono, con suoni percussivi, con i rumori più disparati, in un crescendo costante, assordante, che culminava nella distruzione del mostro di latta, ma che alla lunga risultava più noioso che trascinante.

Assai più riuscita e raffinata era Plans for Future Operas di Øyvind Torvund, sia dal punto di vista musicale che per il sottile humor che la pervadeva. Già autore di altri “plans” (l’ultimo presentato l’anno scorso a Donaueschingen), dove l’esecuzione strumentale è associata a proiezioni di una serie di disegni a matita su carta a quadretti, che rappresentano utopiche situazioni musicali, il compositore norvegese ha creato un’incalzante successione di brevi scene, insieme ironiche e apocalittiche, che mostravano nuove idee per far rinascere il genere dell’opera. Affidate al soprano Juliet Fraser e al pianista Mark Knoop (che suonava un pianoforte e un campionatore), apparivano come un delizioso capriccio, una modernissima forma di metateatro, che andava anche al cuore dei problemi del teatro musicale. Si ipotizzavano un’opera nella foresta capace di sfruttare il canto degli uccelli (mescolando cinguettii veri, vocalizzi del soprano, suoni secchi e acuti della tastiera elettronica, il suono di un’orchestra nascosta, che rispondeva al canto degli uccelli); un’opera sulla spiaggia (con altoparlanti che imitavano il suono del mare); un’opera dove duettavano il soprano e un pupazzo del muppet show dalla voce cavernosa; un’opera per un solo cantante e un solo spettatore; un’opera “paranormale” dove gli interpreti sulla scena cercavano di mettersi in contatto con i morti; un’opera “telepatica” dove un cantante, accompagnato dagli arpeggi del pianoforte trasmetteva telepaticamente, senza cantare, la melodia vocale al pubblico; un’opera mirata alla levitazione del pubblico, con una musica mistica e sensuale che mescolava un coro polifonico (virtuale), il suono di un theremin, e i vocalizzi del soprano. Insomma, le idee per un rinnovamento del teatro musicale non mancano.

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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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