di Luca Chierici
Ha forse ragione Quirino Principe nel notare che gli infiniti dettagli presenti nella straordinaria partitura della Terza sinfonia di Mahler invitano a un’analisi praticamente impossibile da compiere anche attraverso un ascolto che dura tutta una vita (“Troppo da scoprire ancora, per una normale esistenza”).
E le grandi esecuzioni di questo capolavoro che si possono oramai reperire facilmente, in audio e in video, non fanno altro che confermare la complessità di un discorso che trasforma il comune ascolto in un vero e proprio viaggio esistenziale, un rito che a ben vedere è comune a molte delle grandi imprese musicali che fanno parte del repertorio.

Siamo ancora piuttosto frastornati dall’esecuzione per molti versi mirabile che abbiamo appena ascoltato dalla bacchetta di Daniele Gatti con la Filarmonica della Scala, il mezzosoprano Elìna Garanča, il Coro di voci bianche preparato da Bruno Casoni, il Coro femminile diretto da Alberto Malazzi, la voce del violino di Laura Marzadori. Esecuzione che ha per certi versi rappresentato una sfida ulteriore nel complesso cammino interpretativo portato avanti da direttori di indubbia fede mahleriana. Quella di Gatti è stata una lettura per molti versi problematica e certamente portata a sottolineare il programma della sinfonia stessa e soprattutto lo stacco tra la prima e la seconda parte, più che a veicolare una visione unitaria di questo capolavoro. Questo spiega certa frammentarietà di fraseggio che si è percepita soprattutto nel primo movimento e che è stata notata alla fine da più di un ascoltatore presente in sala.
Un’analisi della partitura, quella di Gatti, compiuta anche guardando alla collocazione di questa Terza all’interno di un percorso esistenziale quanto mai travagliato e segnato dal periodo viennese e americano e poi dal fatale ritorno in Europa. Altri direttori, e per ciò che riguarda l’esperienza scaligera pensiamo ovviamente alla storica interpretazione di Abbado di quarant’anni fa, scelgono per la terza sinfonia una lettura rivolta più a smussare le complessità semantiche e a facilitare la comprensione del percorso per un pubblico di non specialisti. Ma lo stesso esame delle durate delle grandi esecuzioni che hanno caratterizzato la storia recente di questa sinfonia non sono sufficienti a chiarire le differenze di approccio dei vari direttori: basti notare quanto siano differenti tra loro le visioni di uno Chailly, o di un Currentzis e oggi di Gatti pur all’interno di un minutaggio comune di un’ora e quarantatré minuti esatti. Non ci soffermiamo su quelli che possono essere dei gusti personali che ci spingono a preferire le letture di Abbado e di Bernstein sopra ogni altra cosa (e l’orchestra che suonò con il primo nel 1982 era ben lontana dal grado di perfezione della scaligera attuale !). La validità di una interpretazione non la si giudica a volte in base a parametri esclusivamente tecnico-estetici, ma in rapporto con la densità di particolari che in sala ci costringono a pensare, a meditare sull’esecuzione stessa. E in questo caso il contributo di Gatti è stato più che sufficiente a rendere memorabile la serata.