di Ruben Vernazza foto © Roberto Ricci
NEGLI STESSI GIORNI in cui giunge la lieta notizia dell’approvazione da parte del Senato di una legge che (se confermata dalla Camera) assegnerà al Festival Verdi un finanziamento pubblico di un milione di euro annui, al teatro Regio di Parma esordisce Il trovatore, ultimo dei quattro titoli proposti nell’edizione 2016 della rassegna consacrata al compositore di Busseto. Lasciate sbollire le contestazioni che hanno caratterizzato la “prima”, abbiamo assistito alla terza replica, tenutasi giovedì 27 ottobre. Un’opprimente oscurità domina l’allestimento. Nere gradinate in legno, di volta in volta collocate in diverse posizioni del palco davanti a un fondale scuro, sono le uniche strutture di cui si compone la scenografia ideata da Marco Rossi; spente tonalità di grigio e marrone caratterizzano i rigorosi costumi di Marta Del Fabbro.
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Le sole significative deroghe all’imperante cupezza sono una cascata di gigli bianchi che ingentilisce la scena del mancato matrimonio e una sciarpa rossa al collo di Manrico. Proporre un Trovatore tanto spoglio e tenebroso lascia non poche perplessità (come non desiderare un po’ di colore quando nel campo dei gitani risuona il coro “Vedi! Le fosche notturne spoglie”?), e vien da pensare che una scelta di questo tipo sia stata concepita per permettere allo spettatore di concentrarsi anzitutto sulla musica e sulla recitazione.
La regìa di Elisabetta Courir, tuttavia, non convince: la gestualità dei solisti è trascurata (ad esempio, qualunque sia la situazione drammatica, Leonora oscilla come un pendolo, e mostra le due mani spalancate come volesse rinverdire i fasti di Giuseppe Fancelli, celebre tenore ottocentesco che per lo stesso viziaccio era soprannominato cinque e cinque fanno dieci), e alcune trovate che vedono coinvolte le masse corali appaiono del tutto fuori luogo (non ci si spiega per quale bizzarro motivo, all’inizio del terzo atto, si è imposto ai soldati del Conte di Luna di infilarsi e allacciarsi con non poco disagio gli stivali in proscenio, mentre sono impegnati a cantare). Soprattutto, il reiterato intervento in scena di mimi risulta ridondante, e talvolta disinnesca la tensione drammatica.
Nemmeno l’esecuzione musicale compensa del tutto la scarnificata scenografia. È arcinoto che formare una troupe adeguata per Il trovatore non sia affatto semplice. I ruoli principali sono quattro, e per ognuno di essi servono interpreti di notevolissima caratura, vuoi per credibilità drammatica (Azucena), vuoi per estensione vocale (Leonora, Manrico, il Conte di Luna). Del quartetto impegnato al Regio convincono solo il baritono e il mezzosoprano. Con la sua voce solida e piena, facile all’acuto e ben controllata a livello dinamico, George Petean scolpisce con vigore la parte del conte di Luna, e ottiene meritati consensi al termine dell’aria «Il balen del suo sorriso». Dal canto suo, l’Azucena di Enkelejda Shkosa appaga sia per la notevole presenza scenica, sia per la precisione ritmica e declamatoria. Le prove del soprano e del tenore, invece, sono anzitutto inficiate da una dizione approssimativa. Nei panni di Leonora, Dinara Alieva possiede una voce voluminosa, ma il timbro è ovattato e le sfumature espressive non sono sempre risolte felicemente. Murat Karahan fornisce a Manrico una voce squillante ma poco corposa; non perde l’appuntamento con il tradizionale acuto della cabaletta «Di quella pira l’orrendo foco» (della quale, purtroppo, viene tagliato il da capo), ma dà spesso l’impressione di risparmiarsi nei pezzi d’assieme, e non sempre è centrato a livello attoriale. Fra i ruoli comprimari va citato almeno Carlo Cigni, un Ferrando preciso e gagliardo.
Il Coro del Regio, preparato da Martino Faggiani, risolve con encomiabile precisione gli interventi fuori scena, e per carattere e vigoria mostra di avere nella musica di Verdi il suo pane quotidiano. Anche la Filarmonica Toscanini squaderna alcuni begli effetti, ma la direzione di Massimo Zanetti non sempre riesce a sfruttarne tutte le potenzialità: a fronte di una buona cura del dettaglio, talvolta i contrasti dinamici appaiono troppo accentuati e i tempi dilatati, mentre la quadratura con il palcoscenico non sempre è perfetta.
Come per tutti i principali appuntamenti del Festival Verdi di quest’anno, il pubblico è numeroso e internazionale, e non fa mancare applausi né durante la recita, né al calare del sipario.
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