di Francesco Lora
IL FESTIVAL PRIMAVERILE del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino ha dimenticato da tempo la missione storica, ossia restituire alle scene capolavori operistici dimenticati insieme con la relativa cultura artistica. Non è una colpa: numerosi festival fondati sul suo antico esempio, in Italia e nel mondo, assolvono oggi idealmente a questo ruolo. Ma la stagione artistica appena inaugurata in riva all’Arno sembra fissare una nuova età, che nel ricco assortimento di proposte – la Didone abbandonata di Vinci si affianca al Faust di Gounod – torna a osare, indagare e contestualizzare. A dimostrazione della bontà del progetto, con titoli rari essa finisce per attirare non meno pubblico di quanto a Firenze si veda per un Rigoletto o una Bohème. La Semiramide di settembre, benché non immacolata, ha fatto da prologo a un vero e proprio festival interno alla stagione d’opera, dedicato al belcanto nell’età di Rossini, Donizetti e Bellini: l’esecuzione in forma di concerto della Rosmonda d’Inghilterra donizettiana (9, 12 e 15 ottobre), concerti con Chris Merritt, Michael Spyres, Jessica Pratt e Shalva Mukeria (10, 11 e 14), la rappresentazione dell’operina da camera Le cinesi di Manuel del Pópulo Vicente García (13, 15, 16 e 18: recite, soltanto in questo caso, non nel teatro dell’Opera ma nel Teatro Goldoni).
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ROSMONDA D’INGHILTERRA
Per la Rosmonda è stato un ritorno a casa: fu creata durante il carnevale 1834 nel Teatro della Pergola, ebbe accoglienza tiepida a dispetto di una formidabile compagnia di canto (Fanny Tacchinardi Persiani, Anna Del Sere, Gilbert Duprez) e fu ripresa una sola volta dopo due riallestimenti abortiti (Napoli 1837 e Venezia 1838); frattanto, la prima interprete aveva preso a inserirne la cavatina nella Lucia di Lammermoor, in luogo di «Regnava nel silenzio», e instaurò una prassi così soddisfacente che l’autore stesso, nel rifacimento francese dell’opera, riconfermò il brano dalla poco fortunata Rosmonda. Le ragioni della sorte avara sono tanto più inspiegabili all’indomani del Belcanto Festival, arrivato dritto al segno nel riabilitare il titolo negletto: il ritmo drammatico dell’opera mozza il fiato, l’ispirazione musicale procede di pari passo, l’esecuzione entusiasma senza meno. Cinque soli personaggi divengono tutti supporti ideali per grandi interpreti, dispensando persino la rarissima compresenza di due primedonne paritetiche, e la locandina riassume la festa di scelte artistiche felici quando non perfette.
Perfetta è la Pratt nella parte del titolo: al ruolo della giovane rovinata dalle scalmane erotiche del re, perseguitata dal furore vendicativo della regina, posta a duro cimento nel confronto col padre, amata a distanza di sicurezza da un paggio della corte, ella reca il lirismo commovente che la immedesima nel personaggio; ma il processo è condotto con le doti della belcantista sovrana: emissione fosforescente che pare effusione intorno alla cantante, timbro dunque di abbagliante luminosità e avvenenza, risonanza importante, agilità liquida fino all’insolenza, trilli graniti come ormai non se ne ascoltano più da altra, registri grave e medio saldati con omogeneità a un registro alto che non teme i Mi sopracuti afferrati di salto. Nel pregiudizio di chi scrive, accostare alla Rosmonda della Pratt la Leonora di Eva Mei doveva significare lo strapotere della prima, cantante nel pieno rigoglio, e la relegazione della seconda, cantante avviata al declino; è un privilegio doversi ricredere: la Leonora della Mei è un capolavoro d’introspezione psicologica, condotto con un’autorevolezza d’accento memorabile per gelida regalità e affilata insinuazione; la belcantista che fu, rinfocolata dalla circostanza d’eccezione, sembra riarmarsi delle prime sue abilità virtuosistiche e unirle a un talento attoriale viepiù maturo: nei luoghi del confronto, la Pratt deve vedersela con una collega di pari grado e indirizzo complementare.
Fra le due primedonne si inserisce superbo Michael Spyres nella parte di Enrico II: nulla lo impensierisce della scrittura vocale, benché impervia, trattata con la stessa baldanza che anima il personaggio; e un discorso più completo merita d’essere fatto a parte, circa il suo concerto solistico inserito tra le prime due esecuzioni dell’opera. Efficace Nicola Ulivieri come Clifford, per quanto l’autorità paterna trovi in lui accento più morbido e attonito che vigoroso e scultoreo. Eccellente è a sua volta Raffaella Lupinacci nella parte di Arturo, comprimaria ma caratterialmente frastagliata e gratificata di un’aria rilevante; ovunque si ammira un porgere appassionato, una dizione impeccabile, una coloratura sciolta, l’elegante misura nel contenere ambiguamente il ruolo en travesti tra la sollecita amorevolezza femminile e l’ardore adolescenziale del paggio.
Se l’alta scuola retorica di tutta la compagnia non fa mai percepire la mancanza dell’azione in scena, una corrispondente maestria evocativa e narrativa si trova nella concertazione di Sebastiano Rolli, un direttore tra i pochi che sappiano oggi affrontare l’opera ottocentesca con cognizione storica dello stile. Egli ha per alleati l’Orchestra e il Coro del MMF, coinvolti e vulcanici come non mai: mentre la compagine corale si impone per impeto, velluto e sostanza, quella strumentale rivela – essa che da Zubin Mehta è stata coltivata in un repertorio più tardo e turgido – la strepitosa liquidità delle prime parti, l’inaudita cantabilità degli archi, l’echeggio fiorito dei legni e quello splendente degli ottoni. Il valore di Rolli si manifesta parimenti nell’amore verso il cantante, sempre sostenuto nel mestiere nonché distolto dalla pigrizia, e nell’integrità nella quale il testo è preservato: non un taglio, non un momento nel quale il regista del discorso musicale cessi di investigare i dettagli.
Qualche riserva va unicamente all’assortimento del materiale reso disponibile nell’edizione critica: il compositore intervenne a più riprese sulla partitura, anche in vista delle fallite riprese di Napoli e Venezia; molto si è conservato, qualcosa si è perduto, sempre bisognerebbe interrogarsi su ragioni ed effetti di una sostituzione, e sul suo ruolo e sulle sue relazioni nel contesto drammaturgico-musicale; così, lascia per esempio di sasso ascoltare una ricostruzione dell’asciuttissimo finale originale, dove il sipario cala su Leonora che trafigge Rosmonda, anziché la tramandata cabaletta di Leonora trionfante: soltanto quest’ultimo brano è coerente con il brillante incedere dell’opera, e solo in esso può affermarsi fino all’ultimo la competizione delle primedonne, inestricabilmente intese sia nel loro pari ruolo sia come virtuose di pari allure.
DUE CONCERTI DI CANTO
Inseguire il mito dei grandi cantanti del passato: negli scorsi anni Ottanta-Novanta, in piena renaissance rossiniana, Chris Merritt fu l’eroe attraverso il quale risorse la figura di Andrea Nozzari, il baritenore cui il Cigno di Pesaro destinò parti di difficoltà diabolica, estese su due ottave e mezzo, irrorate di passaggi d’agilità e bruschi scarti di registro, accompagnate non di rado da un’orchestra fragorosa. Dopo quell’esperienza imprescindibile ed entusiasmante, la carriera di Merritt ha però dovuto fare i conti con un precoce declino, e si è presto assestata su un repertorio differente e meno pretenzioso, sino al momento di un silenzioso ritiro de facto dalle scene. Cosa resta oggi del patrimonio vocale del leone sessantaquattrenne? Il recital di canto fiorentino, seguìto a episodiche rentrées negli ultimi mesi, ne è stato una malinconica ostensione. Fermi al loro posto rimangono il timbro chioccio e la pronuncia anglicizzante; l’emissione si è fatta affannosa, l’intonazione approssimativa, il solfeggio noncurante, l’estensione difficoltosa; non rimane traccia di legato e vocalizzazione in un programma che, al contrario, molto esigerebbe in tal senso in faccia a una proposta scontata: “arie antiche” di Scarlatti, Gluck, Bononcini, Legrenzi e Durante, pescate dall’obsoleta raccolta di Parisotti; pezzi da camera di Rossini, Donizetti e Bellini; un solo bis, che ripropone la Strega di Hänsel e Gretel di Humperdinck, portata in scena di recente al Goldoni di Firenze.
E l’eredità di Nozzari? Oggi sta al sicuro nell’arte di Spyres, protagonista non del solito svelto recital con accompagnamento di pianoforte, ma di un concerto con orchestra, coro e un programma al limite delle possibilità umane: tranne una sola, vi si ascoltano tutte le arie composte da Rossini per il sommo artista, e dunque una a testa in Elisabetta, Otello, Ricciardo e Zoraide, Ermione, La donna del lago e Zelmira (in quest’ultima opera, le arie sarebbero due); per assicurare una visione prospettiva, fra esse prendono luogo anche quelle dalla Medea in Corinto di Mayr e dall’Alessandro nelle Indie di Pacini, oltre che la visionaria Sinfonia dell’Ermione. David Parry, il venerabile cultore dell’opera italiana ottocentesca che tanto ha dato al ripristino della corretta prassi esecutiva, dirige con ricami e schianti degni della pompa post-napoleonica i complessi fiorentini, trovati in stato di grazia e subito cavalcati con signorilità britannica; cosa divengano i passaggi di flauto, oboe e clarinetto, in tale orizzonte di perfezione, è cosa ardua da riferire a parole: si comprende la miglior conciliazione possibile tra astratta brillantezza espositiva e spirito teatrale coturnato. Infine v’è Spyres, che sale in registro misto o voce piena a un registro acuto comunque impavido, indi affonda in un registro grave che – tra note scritte o variazioni – penetra con rimbombo in autentico estremo baritonale; che sa distillare i cantabili a fior di labbro nonché scherzare o cannoneggiare nei tempi d’attacco e nelle cabalette; che nei giri armonici conclusivi, mentre orchestra e coro sferzano ribattuti e accordi, rinuncia al tradizionale riposo abusivo e si slancia invece a cantare ogni nota di sua pertinenza. Sempre con l’ironia in volto e il chewing gum in bocca, questo ragazzone statunitense rappresenta la voglia stessa di lavorare, di sfidare sé stesso, di buttare l’anima per un pubblico che lo adora o impara in breve ad adorarlo; così facendo, salva un repertorio che non potrebbe più fare a meno di lui.
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