di Alberto Bosco foto © Javier del Real
Il Teatro Real di Madrid, in coproduzione con l’opera di Montecarlo e l’opera di Colonia, ha proposto in queste settimane un allestimento di Street Scene di Kurt Weill che promette di diventare una versione di riferimento. Infatti, il tratto più stupefacente della partitura di Weill è l’estrema naturalezza, la fluidità, con cui la musica si inserisce nel dramma realistico e di denuncia scritto nel 1929 da Elmer Rice e ambientato nell’East Side newyorchese. Sembra cioè che la musica non voglia farsi da subito troppo ingombrante, ma si guadagni il suo diritto a trasportare questa sordida vicenda di bassifondi al livello di opera d’arte solo a poco a poco, con fare allusivo e ironico. Persino quando il dramma si è consumato, le illusioni di felicità della giovane Rose si sono infrante e la temperatura sentimentale è stata a dovere elevata e sostenuta dalla parte musicale dello spettacolo, il gesto istintivo di Weill è quello di ridimensionare il crescendo emotivo con un duetto spassosissimo tra due ciniche bambinaie e di reimmettere il dramma nella dimensione di affresco corale, dove la musica si riadatta al ritmo esteriore e un po’ caotico della vita quotidiana. La regia di John Fulljames, si diceva, coglie in modo esemplare questo riserbo e questa duttilità della parte musicale con uno spettacolo tutto giocato su insinuazioni e piccoli gesti significativi, e con un grande lavoro di movimento scenico in cui il centinaio e passa di personaggi in scena, tra bambini, comparse cantanti e ballerini, si avvicendava con la stessa naturalezza con cui i vari numeri musicali di Weill si inserivano nella trama dei dialoghi parlati.
Oltre a questo senso della misura, che è poi segno dello sguardo disincantato e moderno del compositore, la partitura si distingue anche per l’eclettismo stilistico sempre appropriato alla situazione. Si è portati a chiedersi che cosa dia unità a questo sfoggio di stili musicali, giacché è indubbio che, nonostante la solidità del libretto, è poi la musica a decretare il ritmo drammaturgico. Certo, a fare da comune denominatore è l’adozione delle forme e degli stili del musical (jazz, blues, ritmi ballabili, songs zuccherini o melanconici), ma la stessa natura superficiale e frammentaria di questi non basterebbe a sostenere una drammaturgia di ampio respiro, quale è quella che, pur con tutte le riserve tipiche del teatro novecentesco, si percepisce invece in Street Scene. La chiave che ne chiarisce il senso sta in quel doppio fondo di amarezza e ambiguità che certi dettagli stranianti della strumentazione e certi giri armonici inusuali fanno trasparire sotto la patina ingenua e scanzonata del linguaggio “alla Broadway” e che nei momenti clou emerge, gettando così una luce critica sull’insensatezza di una simile vita e delle sue illusorie evasioni. Inoltre, come attestato anche dal coro che con lapidaria e scarna emozione commenta l’uxoricidio nel second’atto, una prospettiva più autentica, di umana pietà, è sempre pronta a prendere il primo piano, salvo poi, per scongiurare ogni rischio di vuota retorica, ritornare sullo sfondo, come ringhiottita dall’indifferenza della vita urbana e dall’inconsistenza della società capitalistica. Insomma, il genio teatrale di Weill sta nel criticare il sistema rispettandone la facciata esterna e senza strombazzature o reclami, ma inserendo nel tessuto musicale ombre e inquietudini che possono da un momento all’altro rivelare il vuoto su cui tutto si regge.
Questa duplicità spiega, infine, perché questo lavoro, andato in scena nel 1947, non abbia avuto fortuna sulle scene di Broadway. Ed è interessante anche paragonarlo a West Side Story che dieci anni dopo sancirà con il suo successo l’affermazione di una stagione più “impegnata” in quel genere per antonomasia disimpegnato e votato all’evasione che è il musical americano: la sensualità dei ritmi caraibici, il vitalismo e il sentimentalismo della musica di Bernstein, pur elevati a un livello di raffinatezza di scrittura inedito, se paragonati alla lucidità disillusa di Weill, non fuoriescono poi di troppo dalle regole del genere, che infatti ha fatto suo questo lavoro senza troppi traumi. Invece Street Scene, non solo è rimasta fuori da Broadway, ma stenta ancora oggi a trovare posto stabile nei teatri d’opera. E qui si possono addurre attenuanti di tipo pratico, quali la difficoltà di trovare nel mondo dell’opera cantanti capaci di muoversi con la stessa versatilità e spigliatezza degli specialisti del musical e la difficoltà di presentare a un pubblico non americano o inglese, un testo in versione originale in cui tanta parte hanno i dialoghi serrati e l’uso di espressioni di strada. Al Teatro Real, per dire, si è ricorsi a un sistema di amplificazione che ha compensato una certa limitatezza vocale dei solisti e li ha aiutati nelle lunghe parti recitate, le quali, però, sono state seguite dal pubblico un po’ stentatamente e con distacco per via della barriera linguistica.
Ma quel che conta, alla fine, è che in questa produzione, regìa e musica si muovono sulla stessa lunghezza d’onda con un risultato riuscitissimo. Le scene sono molto realistiche, ma in alcuni momenti si aprono o si illuminano in modo da rispecchiare le illusioni di felicità e libertà dei protagonisti. Un episodio tra tutti: il momento del trascinante ballo dei giovani nottambuli, che si svolge sullo sfondo di grattacieli illuminati e seducenti. Sulla direzione di Tim Murray e sugli interpreti, niente da eccepire: tutti hanno dimostrato una padronanza di stile e una partecipazione al loro personaggio veramente ammirevoli.