di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
Al Regio di Torino, lo scorso giovedì 15 febbraio 2018, è approdata la straussiana Salome; ed è a causa dell’incidente occorso durante le recenti recite di Turandot che la direzione del teatro ha deciso di proporla – inevitabilmente, data l’indagine in corso e le necessarie verifiche sulla sicurezza – in una versione semiscenica firmata da Laurie Feldman, in luogo del previsto allestimento del canadese Robert Carsen. Ancora una volta l’ha magistralmente diretta Gianandrea Noseda che esattamente dieci anni or sono, tra febbraio e marzo 2008, già aveva ‘governato’ dal podio con mano salda e raffinata sensibilità quell’indimenticabile allestimento. Pur tuttavia, per quanto paradossale possa sembrare, la circostanza, lungi dall’apparire una diminutio, ha finito per riverberarsi in maniera positiva sull’opera, che non a caso ha riscosso un indiscusso successo di pubblico. Merito in primis del colto Noseda: ottimamente assecondato dall’orchestra del Regio in gran spolvero, ha svolto un eccellente lavoro, cesellando con cura le mille sfumature armoniche e le variegate ibridazioni, timbriche, drammatiche ed espressive di una partitura di sovrumana bellezza che, a conti fatti, in un’edizione quasi ‘da concerto’ ci guadagna.
Quanto charme, quanta eleganza profusi già in apertura e poi nel tratteggiare i singoli personaggi, la protagonista innanzitutto, forse più ancora Jochanaan circonfuso di specialissime armonie e particolari giri melodici che lo pongono in una luce peculiare. Noseda per ogni personaggio ha saputo conferire il giusto ‘spessore’ orchestrale, intagliando con cura profili e particolari preziosi, alleggerendo ove occorre, e dando invece vigore alle ‘zone’ più dense e corpose della partitura. Per dire, basterà prendere in esame il passo in cui Salome si abbandona ai tentativi di seduzione del profeta: dalla lettura di Noseda è emerso al meglio il contrasto, beninteso già insito nella partitura, tra le fraseologie della donna, imbevute di sensualità e le risposte del profeta che, sgomento e sdegnato, con fierezza la respinge. Emozionante davvero.
Il clou della Salome – si sa – è il momento della seduzione, quello della danza (nel nostro caso forzosamente inesistente): una danza conturbante e sensuale che è innanzitutto un passo di bravura orchestrale, e infatti pur in assenza delle scene, nulla perde della sua incredibile attrattiva sonora. Non a caso è apparsa in tutto il suo nitore, in tutta la sua bellezza musicale come uno dei passi più alti della partitura e così pure della letteratura musicale di tutti i tempi. Brillantezza sonora, varietà di fraseggi, caleidoscopiche variazioni cromatiche ed altro ancora hanno conferito emozioni alla pagina, evidenziandone tutta la ricchezza del tessuto armonico e rifrangendone in mille schegge l’aristocratica veste timbrica. Non sono mancati, comme il faut, i momenti concitati, i momenti densi di pathos e di drammaticità. E l’orchestra del Regio, ben oliata a metà stagione circa, come una macchina perfettamente messa a punto, merita ribadirlo, ha saputo fornire una prova davvero eccellente, meritatamente apprezzata dal pubblico che l’ha a lungo applaudita a fine serata, mostrando di ammirare sia la bravura delle singole prime parti sia la ‘fusione’ complessiva e il giusto sound impresso all’interpretazione
Ed ora il cast. Icastico e possente è parso il baritono Tommi Hakala; nei panni dell’incorruttibile Jochanaan, ha giganteggiato come occorre, conferendo sdegnata ieraticità all’ascetico profeta: bene per il ruolo vocale, e bene anche dal punto di vista per così dire visuale, nella sua iconica fissità sul proscenio. Da Erika Sunnegårdh, che ha pur correttamente affrontato il ruolo di Salome, cantando con appropriatezza di accenti l’impervia parte, ci saremmo aspettati invece qualche brivido in più, qualche più intensa emozione sul piano vocale (talora risultava lievemente sovrastata dall’orchestra); buona emissione vocale, timbro accattivante ed eleganze di fraseggi non le difettano; ciò nonostante ha convinto solo in parte nella scena dell’ostinata, quasi nevrotica richiesta – ottenere ad ogni costo la testa del profeta, per compiacere il proprio orgoglio di donna e per ottemperare alla sete di vendetta della madre – avvolta dalla funerea tramatura orchestrale. L’avremmo voluta in assoluto più sensuale ed incisiva. Corretta la performance di Doris Soffel che ha sbozzato l’impassibile e algida Erodiade dalla invero non rettilinea psicologia; un po’ troppo macchiettistico l’Erode del tenore Robert Brubaker dalla gestualità talora impacciata, sicché la tragicità del suo dibattersi risultava in parte annacquata. È peraltro riuscito a rendere il personaggio sufficientemente ‘sgradevole’, untuoso come si conviene, con una vocalità pur tuttavia un poco sopra le righe. Impossibile enumerare tutti i comprimari (il capitano, un paggio, Michaela Kapustová, cinque giudei, nazareni, soldati, l’uomo di Cappadocia, uno schiavo) che hanno complessivamente dato vita ad una serata di qualità.
Un cenno, da ultimo, al versante visivo, pur decisamente minimal. La direzione del teatro, sul programma di sala, avvertiva espressamente come «questa versione a cura di Laurie Feldman segua fedelmente il libretto, portando in luce gli aspetti essenziali della potente drammaturgia insita nel capolavoro di Strauss, restituendo a pieno tutta la simbologia contenuta nell’opera». Veniva fatto notare inoltre come «sul palcoscenico, racchiuso tra fondali neri, alcune sedie connotino lo spazio scenico all’interno del quale tutti i personaggi interagiscono: ogni personaggio un costume [costumi firmati da Laura Viglione] che ne connota il ruolo facendone risaltare la personalità» Così negli intenti. Ebbene, a dire il vero i pur sobri movimenti avrebbero potuto essere ancora più limitati, a vantaggio della dimensione sinfonica, la vera protagonista che ha sedotto la platea. E allora, a mo’ di emblematico esempio, ecco ancora la già citata danza dei sette veli ridotta a impassibile fermo immagine: se ne risultava in parte mortificato l’appeal scenico, di fatto faceva sì che ci si concentrasse ancor più sulla strepitosa bellezza della partitura. Dalla quale grondano lussuria, sensualità, fatalismo e l’intera teoria dei vizi capitali, sublimati in una pregnanza che ha del prodigioso. Un doveroso cenno alle valide luci di Andrea Anfossi, ad enfatizzare le scelte minimal della versione semiscenica, un brivido in chiusura: quando Erode proclama «uccidete quella donna» l’immancabile lama rosso sangue sulla figura della femme fatale, fulminata all’istante.
Resta da dire che Salome costituisce a Torino la punta di diamante di un più vasto progetto, come fu lo scorso anno per Vivaldi, un vero e proprio Festival Strauss che si è svolto dal 2 al 25 febbraio, e che – ideato dal ‘capofila’ Teatro Regio e dalla direzione artistica e musicale di Gaston Fournier-Facio e Gianandrea Noseda – ha nuovamente coinvolto l’intero complesso delle risorse musicali cittadine: e allora ecco una ricca mostra documentaria su «Strauss e l’Italia» presso la Biblioteca Nazionale Universitaria, a cura dell’esperto Giangiorgio Satragni che di Strauss è uno dei massimi e più accreditati studiosi, ma anche una ridda di concerti e manifestazioni varie. Impossibile citare tutti, dal contributo dell’OFT (con l’esecuzione della Romanza in fa maggiore per violoncello e orchestra affidata alla mano di lusso di Enrico Dindo) alla proiezione di Arabella, Die Liebe der Danae, e ancora Ariadne auf Naxos al Baretti; dal versante liederistico con la bella serata prodotta dall’Unione Musicale ed affidata al soprano Sandrine Piau dalla colta raffinatezza ed alle mani di Susan Manoff alla tastiera, alle pagine ancora vocali interpretate con sagace intensità da Chiara Taigi e Carmelo Corrado Caruso per Concertante Progetto Arte&Musica a Palazzo Barolo (pianisti l’impeccabile Anna Barbero e l’esperto Diego Mingolla). E ancora: sul côté sinfonico l’inserzione di Till Eulenspiegel nel concerto dell’OSNRai per Carnevale, l’11 febbraio, con la direzione di Axelrod e la serata del 24 febbraio al Regio con Noseda impegnato a dirigere Don Quixote e l’effervescente Aus Italien (al cui interno campeggia Funiculì funiculà). Mario Brunello ed Enrico Pace all’Accademia di Pinerolo, financo un concerto organistico (dedicato al ‘parallelo’ Wagner) per Organalia, conferenze al Goethe ed al Circolo Lettori, un convegno scientifico, un pomeriggio musicale alla Biblioteca Della Corte con Ensemble Antidogma e molto altro ancora (dal cinema alla prosa) e scusate se è poco. Tutti i dettagli su www.comune.torino.it/festivalstrauss.