di Francesco Lora foto © Andrea Ranzi – Studio Casaluci
C’è da preoccuparsi se qualcuno cade nel tranello e crede che questo nuovo allestimento segni un progresso: l’allusione è a Turandot di Puccini e alle sue ultime otto recite al Teatro Comunale di Bologna (28 maggio – 7 giugno), con regìa di Fabio Cherstich e video, scene e costumi di AES+F. La sbandierata rivoluzione consisterebbe nel massiccio uso del cinema nel teatro e nella trasposizione del dramma a un immaginario 2070. Le credenziali del regista non si impennano quando, nel programma di sala, egli sottolinea l’ovvio e vi aggiunge uno scivolone da applauso: «Questa violenta opposizione alla mascolinità, l’aggressività e la freddezza nascono da una ferita dell’animo di Turandot radicata nella sua storia familiare. Lo-u-Ling, suo avo, fu assassinato da un invasore straniero»; come gli altri sanno, però, quest’avo è una signora (la stessa che possiede l’anima di Turandot e che è poi esorcizzata a prezzo del sangue di Liù). Si torni al progresso: le animazioni filmiche proiettate ininterrottamente sul fondo raccontano la storia dei prìncipi decapitati per non aver saputo risolvere gli enigmi; sono dedicate, cioè, non all’opera, ma a una sua posticcia para-sinossi che nulla aggiunge alla sostanza del testo teatrale; distraggono dal capolavoro – cosa tanto più grave visto l’eccellente svolgimento musicale – e invitano a godersi lo spettacolo guardandolo a occhi chiusi. Mancano una personale indagine drammaturgica, un adeguato lavoro con gli attori e l’intraprendenza stessa di muovere la massa corale, fissamente accomodata su tribune o fatta entrare sul fondo a patto che non rechi disturbo.
Come si diceva, però, c’è un eccellente svolgimento musicale. Appassionato specialista del teatro musicale italiano tra Otto e Novecento, Valerio Galli dirige l’orchestra e il coro bolognesi con agogiche incalzanti, eccitando virtuosisticamente le esotiche asprezze armoniche e timbriche pucciniane. Negli intervalli, qualcuno mugugna di un’orchestra tenuta a volume troppo forte: e invece no, visto che l’escursione dinamica si ascolta qui completa dal sussurro all’esplosione; e invece no, visto che l’opera reca una strumentazione in sé poderosa e talora fatta per detonare; e invece no, visto che è una benedizione del cielo ascoltare in gioiosa salute la compagine bolognese. A premiare le mire del concertatore è soprattutto la presenza di Gregory Kunde come Calaf: lo smalto si è usurato e l’acuto si è spossato, ma la memoria non ritrova un altro tenore capace di fraseggiare le due romanze con sottigliezza tale che le trattenga dallo scadimento a canzoni napoletane e le integri con naturalezza nel modernissimo contesto musicale; a fare la differenza è l’accento: quello che scolpisce indimenticabili risposte agli enigmi e che scaraventa in aria un Do sopracuto non più impeccabile, ma fiero, grandioso, degno di un grande personaggio e di un grande attore oltre che di un grande cantante. Non meno valida è la protagonista interpretata da Hui He, un soprano che della parte ha in tasca la resistenza, l’impeto e l’estensione, con l’aggiunta ormai rara di un appeal tecnico all’italiana. La forbitissima Liù di Mariangela Sicilia punta più a far ragionare che a commuovere: benissimo. E ben calibrati sono caratteristi e comprimari.