Nel progetto Side by Side giovani musicisti italiani, borsisti dell’Associazione De Sono, hanno suonato insieme alla storica formazione orchestrale
di Attilio Piovano foto © Pasquale Juzzolino
Toccanti le parole di Francesca Camerana, direttore artistico di Lingotto Musica, la sera di martedì 25 ottobre 2016, in occasione dell’apertura di stagione: con la voce incrinata dalla commozione e con comprensibile orgoglio, ha dichiarato infatti di essere riuscita a realizzare un sogno, ovvero «far suonare i borsisti della De Sono [sua ultra decennale ‘creatura’, oltre ai Concerti del Lingotto n.d.r.] sotto la direzione di Daniele Gatti», grazie al progetto Side by Side che prevede appunto l’affiancamento di alcuni giovani di talento, opportunamente selezionati, per suonare ‘nel leggìo accanto’, a latere di navigati professionisti. Ecco allora che Lara Albesano, Valentina Busso, Antonio Capolupo, Eduardo Dell’Oglio, Fabio Fausone, Raffaele Giannotti, Brice Olivier Mbigna Mbakov, Alessandra Pavoni Belli, Danilo Putrino, Marta Tortia ed Anica Dumitrita Vieru, con tanto di visibilissimo distintivo De Sono, si sono uniti ai ranghi della blasonata Royal Concertgebouw Orchestra – impegnata nella sua unica tappa italiana dell’attuale tournée europea – e assieme dunque ai professori di una delle più prestigiose formazioni mondiali hanno eseguito il Preludio dall’Atto III dei wagneriani Maestri Cantori.
[restrict paid=true]
Che per i giovani sia stata un’esperienza indimenticabile lo si poteva comprendere dalle loro espressioni estatiche, al momento degli applausi, dopo questa pur breve pagina quintessenziata e rarefatta, vero concentrato di intimismo e di «profonda introspezione psicologica»; più ancora lo si poteva misurare dai post nei giorni seguenti fioccati sui social. Un’opportunità unica, invero: quella di suonare sotto la direzione di un fuoriclasse come Gatti che pare accarezzare la pasta degli archi traendone sonorità di rara bellezza ed indicibile intensità.
Poi ancora Wagner e allora ecco l’Alba, il Viaggio di Sigfrido sul Reno, la Morte di Sigfrido e infine la Marcia Funebre da Il crepuscolo degli dèi che ha costituito il piatto forte della prima parte di serata. In apertura dell’Alba Gatti ottiene pianissimi degli ottoni da brivido, sapendo di poter contare su una formazione di rara perfezione e fusione: che non a caso ha innescato emozioni davvero uniche. Dieci contrabbassi, 12 violoncelli e via gli archi in proporzione, ben quattro arpe (accanto s’intende a legni, ottoni e percussioni) ed ecco che il viaggio cavalleresco di Sigfrido ha raggiunto apici emotivi elevatissimi. Con crescendi calibrati al millimetro, poi sfolgorare di ottoni, e quella scheggia di imponente corale che da sola costituisce una prova di bravura per ogni compagine. Suono bellissimo ed un’esattezza ritmica a dir poco proverbiale: non sono che alcune delle peculiarità della Royal Concertgebouw, fusione timbrica e corposità del suono danno vita a clangori immani e per contro estenuazioni al limite dell’udibile.
Gatti – come sempre – possiede un gesto di una chiarezza ed espressività che raramente è dato reperire in altri suoi colleghi. Non solo, ha saputo rendere visibile, quasi una lezione di stile, la curva espressiva che dall’esordio del lungo interludio sinfonico conduce alla Morte di Sigfrido. Cura estrema dei dettagli: per dire, il tema della spada che se ne viene fuori in tutto il suo nitore, con un’eleganza lontana migliaia di anni luce dal plateale effettismo in cui è facile scadere, idem dicasi del corno da caccia evocativo di spazi boschivi, e molti altri particolari ancora che solo per ragioni di spazio non è possibile enumerare.
Poi, in luogo del previsto Preludio dall’Atto I ancora dai Meistersinger, ecco che è stato eseguito invece – per la gioia dei mahleriani doc, il mirifico Adagio dall’incompiuta Decima Sinfonia. E qui Gatti e la RCO hanno superato se stessi, archi magnifici, per bellezza di suono e fraseggio, una ‘tavolozza’ timbrica estremamente screziata, pur in una pagina di concentrata e tesa espressività (memorabile il punto in cui l’orchestra pare a un passo dal lambire la scrittura atonale e allora ecco un vero e proprio cluster, indimenticabile). Raramente ci è accaduto di ascoltare Mahler eseguito con tale pregnanza.
Infine, con coerenza per così dire programmatica, i complessi Drei Orchesterstücke op. 6 del novecentesco Berg: all’espressività toccante del Preludio che Gatti ha dipanato con una chiarezza e un’acribia incredibili, si contrappone la cupa tetraggine iniziale dell’espressionistica Reigen con quei ritmi sghembi di valzer deformato, ma anche con quei passi dalle sonorità siderali di celesta e delicatissimi impasti. Infine l’ultimo pezzo, una Marcia di spettrale bellezza, con quel coagularsi di ritmi come di Trivial Musik, brano di sommo fascino timbrico, destinato a collidere con se stesso e a raggiungere una sfolgorante concitazione, con quei ferali colpi di martello, come di mannaia al pari di quanto accade nella mahleriana Sesta Sinfonia.
A fine serata, pur in presenza di un programma non certo facile né popolare, lo scroscio degli applausi decretava un successo enorme; e nel foyer l’ammirazione del pubblico per la concertazione abilissima di Gatti era palpabile nei conversari degli habituées e dei melomani incalliti. Prossimo appuntamento già il 9 novembre con l’Orchestre des Champs-Élysées per la direzione dello specialista Herreweghe e il Quarto di Beethoven eseguito insolitamente al fortepiano: da segnare in agenda e da non perdere per nessuna ragione, farà riflettere (e magari dividerà il pubblico nella valutazione).
[/restrict]