di Luca Chierici
L’atteso recital di Mikhail Pletnev per le Serate Musicali di Milano si è rivelato essere un momento di riflessione non comune attorno alla musica e soprattutto al pianoforte, inteso come strumento dal quale si possono estrarre effetti (suoni) di estrema raffinatezza.
Molti tra i grandi pianisti del Novcento sono rimasti celebri sia per il loro contributo all’interpretazione musicale che per gli effetti che erano capaci di trarre dal loro strumento. Alcuni di essi, ad esempio Arrau o Serkin, Schnabel, Gieseking dirigevano quasi sempre le proprie ricerche sul versante puramente musicale, indagando il testo in vista di una lettura fedele, peraltro non intesa in senso maniacale (oggi si direbbe “filologica”). Altri (Horowitz, Cherkassky,…) facevano sfoggio di innate capacità coloristiche traendo dalla tastiera effetti di straordinaria bellezza che alcune volte prendevano il sopravvento sulla fedeltà testuale. Pochissimi i casi in cui queste due tendenze si sovrapponevano arrivando a raggiungimenti di qualità assoluta diremmo mai più raggiunti da altri colleghi (forse era il caso dei soli Cortot e Michelangeli). Mikhail Pletnev rappresenta un esempio singolare di artista che col passare del tempo è passato da posizioni di relativa fedeltà testuale all’attuale contesto in cui la personalità dell’interprete travalica molto spesso il segno originale, ponendo all’ascoltatore un problema non secondario di identità: siamo in presenza di un recital di musiche di Chopin o di Pletnev-Chopin ?. Dopo il Lang-Bach di alcuni giorni fa nel caso delle Variazioni Goldberg siamo stati testimoni ancora una volta di un travisamento del testo originale? In parte si, ed è stato il lato più spiacevole di una serata peraltro godibilissima, anche perché la qualità del pianismo di Pletnev non è nemmeno paragonabile a quella del popolare virtuoso cinese.
Si diceva che Pletnev era partito all’inizio da posizioni piuttosto differenti. È sufficiente ascoltare qualsiasi dei numerosi recital da lui tenuti anche nella sola Milano negli ultimi trent’anni per rendersi conto facilmente di una evoluzione-involuzione in tal senso davvero radicale. Il banco di prova dell’altra sera era del resto molto particolare, trattandosi di un programma interamente dedicato a un solo autore (Chopin) che, nonostante la presenza di un luogo comune duro a scomparire, relativo alla possibilità di interpretarne la musica in senso molto allargato, scrive in maniera assai precisa, lasciando all’interprete relativamente pochi gradi di libertà. Si può allargare o restringere il contorno temporale di una frase, sottolineare certi accenti, scoprire disegni unitari nel contesto di una composizione di una certa struttura. Ma se l’autore scrive un “piano” o un “forte”, se non indica chiaramente seconde o terze voci, se non richiede dilatazioni o restringimenti del tactus, è facile che una interpretazione immaginosa che non tenga conto di questi limiti possa scadere se non proprio nel cattivo gusto, nell’incomprensibile, almeno in un qualcosa che ha poco a che fare col pensiero del compositore. Pletnev ha spesso varcato il confine del “possibile”, contando più sulla bellezza incredibile del suono, sul fascino del colpo di scena, che sulla rispondenza tecnica e narrativa nei confronti di testi noti alla gran parte degli astanti attraverso centinaia di interpretazioni di indiscutibile importanza.
Un’arma in possesso di Pletnev è senz’altro quella della creazione, in sala, di uno stato di stupore che viene ridimensionato da un successivo ascolto dei contenuti registrati: riascoltando alcuni passaggi del recital, il fraseggio di Pletnev pare più accettabile, meno provocatorio rispetto a quanto si era ascoltato in sala, segno questo di una notevole “showmanship” nascosta da Pletnev dietro un’immagine di sé fin troppo seria, o a volte svagata, come se il pianista fosse piombato d’improvviso in sala e avesse dovuto improvvisare sui due piedi un intero recital. Scendendo nel particolare, operazione qui più che mai necessaria per puntualizzare il discorso con qualche esempio, nella Polacca op.26 n.1 di apertura del concerto Pletnev non ha rispettato certe annotazioni quali l’accentuazione sulla seconda nota del tema invece che sulla prima o il “sotto voce” (nel secondo ritornello) proponendo al contrario l’assertività di un doppio “forte”. Altro particolare perlomeno strano, qui come nella maggior parte degli altri numeri inclusi nel programma: Pletnev liquida molto rapidamente gli abbellimenti, soprattutto i gruppetti, là dove interpreti non certo tacciabili di iper-romanticismo, come Pollini, indugiano in una realizzazione belcantistica del tutto in linea con i presupposti chopiniani di amore sviscerato verso certi fraseggi belliniani. Nel caso della Fantasia op.49 Pletnev sconvolgeva la successione di staccati e legati conferendo al fraseggio un che di insolito, affrontava più rapidamente dell’usuale un “tempo di marcia” che diventava una camminata rapida come quelle che consigliano gli istruttori di educazione fisica a coloro che devono praticare moto ai fini di tonificazione e dimagrimento. Raddoppi al basso e altri accorgimenti poco ortodossi non si contavano nemmeno, portando a una visione drammatica del discorso che aveva indubbiamente un fascino innegabile. Non stiamo qui del resto parlando di mancanza di emozioni, di visione globale nei confronti di una narrazione che ti colpisce al cuore. Non bisogna però confondere ciò che è di Pletnev da ciò che intendeva il compositore quando passava ore e ore a puntualizzare il testo di indicazioni ben precise. Uno dei drammi più profondi vissuti da un interprete è del resto quello di dover delimitare un confine tra le proprie emozioni e quanto indicato dal segno, perché il rischio di fraintendimento è sempre alle porte. Il pubblico dovrebbe capire se si reca a un concerto per ascoltare il volere dell’interprete o quello del compositore, senza lasciare penetrare troppo in profondità la propria visione (spesso distorta) dei fatti. È l’atteggiamento che mi è sembrato prevalesse nel consenso del pubblico stesso, evidentemente più attratto dall’immaginazione del pianista che dal significato più oggettivo del pensiero del compositore. Forse l’unico numero del programma che è rimasto parzialmente esente da rimaneggiamenti è stato la Polacca op.53, stranamente uscita illesa tranne che per una evidente reminiscenza delle esecuzioni di Horowitz, soprattutto in quel luogo magico che precede l’ultima ricapitolazione del tema principale, là dove Horowitz (e Pletnev con lui) rallenta i tempi e sfuma le sonorità, inserisce accenti non scritti, quasi a descrivere un’atmosfera di rinuncia, di morte che annulla tutto il carattere trionfale del pezzo.
Si è detto del successo trionfale della serata, senza riserve. In camerino, Pletnev si è lasciato andare a qualche confidenza e ha tra l’altro detto che gli unici pianisti dai quali avrebbe potuto avere buoni insegnamenti sarebbero stati Rachmaninov e Michelangeli. Bel complimento, ma ambedue i mostri sacri citati non erano mai giunti a modifiche del testo così evidenti.