
Il direttore d’orchestra russo ha interpretato Čajkovskij, Prokof’ev e la «Fantastique» di Berlioz in un’atipica lettura
di Attilio Piovano
In questi giorni di inizio febbraio, complici le abbondanti nevicate, Torino pare San Pietroburgo. L’effetto Russia sul versante della ‘classica’ è accentuato dalla presenza in città di sommi interpreti provenienti da quelle contrade, prima Sokolov, ora Valery Gergiev che (abbandonato per una sera il Regio dove dirige «L’angelo di fuoco», lo recensiremo a brevissimo), alla guida della ‘sua’ orchestra, quella del Teatro Mariinskij di San Pietroburgo di cui è direttore artistico e generale, si è presentato alla ribalta entro il cartellone di Lingotto Musica, ieri sera, venerdì 3 febbraio, presso l’Auditorium ‘Agnelli’: portando così a sette – avvertono gli organizzatori che segnalano con comprensibile orgoglio il tutto esaurito – le sue apparizioni sul palco dei Concerti del Lingotto.
Due pagine russe nella prima parte del programma. In apertura si è ascoltata di Čajkovskij la straordinaria Ouverture-Fantasia «Romeo e Giulietta» di cui Gergiev ha dato una superba interpretazione. Memorabile l’attacco, coi contrabbassi catramosi e profondi e quel colore inconfondibilmente russo. Poi lo scatto ritmico dell’«Allegro» volto a prefigurare le risse tra i clan delle famiglie opposte, cui Gergiev, molto opportunamente, ha impresso singolare concitazione, indugiando e cesellando invece il celeberrimo tema cantabile: contrassegnato da quella dolcezza estenuata ed un filino morbosa che di Ciajkovskij è una firma, già prossima ai climi espressivi della «Quarta Sinfonia» e più ancora della «Patetica», ma il cui caratteristico giro armonico lo apparenta anche a certe idiomatiche frasi di Rachmaninov. Lettura analitica, quella di Gergiev, per lo più impetuoso e magnetico, ma nel contempo sorvegliatissimo, abile nel rilevare anche le minime increspature di una partitura sontuosa e lussureggiante, ma senza mai perdere di vista la più ampia curva espressiva, la visione d’insieme. L’Orchestra del Mariinskij che Gergiev ha portato in questi anni ad un elevato livello qualitativo ha sfoderato archi aitanti ed ottoni luminescenti, legni pastosi ed acuminate percussioni. E così, grazie ad una concertazione di incredibile precisione e scrupolo, si sono potute apprezzare mille preziosità, come il gocciolio arcano dell’arpa. C’è tutto Ciajkovskij in questa superba «Ouverture»; nel rintocco lugubre e sinistro del timpano che avvia la coda, prima del corale liturgico, già è presagito il finale della «Sesta», pur senza quella tragicità e quel pathos che la rendono immortale. Assai applaudito, Gergiev ha indicato idealmente assonanze, evidenziato i climi espressivi che circolano da una partitura all’altra, additandoli in un lettura coerente e di incredibile appropriatezza stilistica.
Quindi dell’episodio intitolato «Frate Lorenzo» Gergiev evidenzia la cantabiltà dai toni bruniti e dall’andamento un poco ipnotico, isolando il basso tuba al grave
Ancora musica russa, per il secondo brano in programma, e ci si è spostati sul versante del novecentesco Prokof’ev del quale Gergiev ha scelto di eseguire una rapinosa selezione antologica dalle due «Suites» di «Romeo e Giulietta». Apriva la carrellata l’episodio «Montecchi e Capuleti» con quell’inizio quasi materico, fatto di dissonanze laceranti e crude. Poi subito il ritmo di marcia cupa, così congeniale a Prokof’ev, scandita dalle percussioni e con le tetre fanfare dei tromboni e lo svettare livido dell’ottavino. Al centro un episodio di stranita dolcezza con la delicata celesta: tutti dettagli trattati con estrema cura da Gergiev, così come delle «Maschere» ha ben colto il carattere grottesco, canzonatorio, con il dialogo tra cornetta, clarinetto ed oboe dalle sonorità acidule, stridenti ed agrodolci (ottime le varie prime parti e perfetto l’insieme). Quindi dell’episodio intitolato «Frate Lorenzo» Gergiev evidenzia la cantabiltà dai toni bruniti e dall’andamento un poco ipnotico, isolando il basso tuba al grave. Grandi emozioni in «Romeo alla tomba di Giulietta» col grido straziante dei violini che vanno poi ripiegandosi su se stessi cedendo spazio agli altisonanti appelli degli ottoni. Emergeva tutta la tesa drammaticità della pagina, a tratti più funerea che struggente, poi ancora impennate degli archi ed il climax aspro e lugubre, con sonorità massicce, addensate, punteggiate dal pulsare del timpano e infine l’esalare sospiroso degli archi, imbevuti di cupezza rilanciata magnificamente dagli estremi timbrici di controfagotto e ottavino che il direttore ha ben posto in primo piano. A suggellare il tutto la «Morte di Tebaldo», vero tour de force per l’orchestra intera, con il scorribande irrefrenabili degli archi, le sventagliate di xilofono e tamburo, e la corsa a briglie sciolte che mostra la lontana derivazione dalla «Sinfonia classica». Gergiev vi ha immesso un che di febbrile, poi la gragnuola degli accordi iterati, secchi e inesorabili su cui la corsa vertiginosa dei violini s’è andata a a schiantare, facendo collassare la pagina in un collidere di sonorità tese e di clangori che ne hanno suggellato la tragicità, strappando lunghi applausi.
Meno convincente, sia pure ad alti livelli, la personale e atipica lettura della «Fantastique» di Berlioz. Bene le sonorità estenuate all’inizio e poi il fiondarsi nel tema energico, ma in questo caso la concertazione iper analitica di Gergiev ha finito per togliere (a nostro avviso, beninteso) un poco di quell’aura demoniaca e di mistero che alla pagina appartiene fin dall’esordio, e non solo nel sabba finale. Avremmo voluto più enfasi nelle ondate e nei marosi del primo tempo, più tira e molla ritmici nel «Valse», magnetico in apertura, ma poi fin troppo leggiadro, pur evitando leziosaggini e smancerie. Anche qui molta attenzione ai dettagli (forse fin troppa), bene ad esempio il controcanto dei violini che si oppone al decollare del tema ai violoncelli; spesso risulta inudibile, come risucchiato dal gorgo dei bassi, e invece era nitido, ma avremmo desiderato più corposità al grave per quel passo pseudo wagneriano che invece è passato via liscio, un poco sbiadito. Eccessivamente dilatata se pur deliziosamente cameristica la «Scena nei campi» di cui Gergiev è riuscito ad attenuare solo in parte le innegabili lungaggini. Molto sobria anche la marcia al supplizio, con amalgami timbrici apprezzabili, ma tutto come trattenuto, come nel timore di abbandonarsi a quegli eccessi fonici, a quel magma allucinato e fantasmatico che invece ne costituiscono il nerbo. Abbandoni maggiori nel «Sogno di una notte del Sabba». Un dettaglio: forse un po’ troppo forte la campana che in tal modo faceva risuonare gli armonici e se ne percepiva un doppio bicordo, con effetto inconsueto, grottesco, e ci poteva anche stare, benché risultasse un poco destabilizzante. Superba la parte finale per precisione e chiarezza analitica, ma con gli strumenti un po’ più agglutinati avrebbe reso il tutto ancora più attraente e coinvolgente. Insomma una lettura novecentesca, a tratti quasi neoclassica, per capirsi, a leggero discapito di quella visionaria e delirante allure che della «Fantastique» è il motivo di maggior appeal. Festa grande e lunghissimi applausi a direttore ed orchestra quindi, come bis, la straordinaria orchestrazione della popolare, patriottica ed ungherese «Marcia di Rákóczi» che Berlioz inserì nella propria «Damnation de Faust» e che già Liszt (dedicatario) aveva destinato al pianoforte.
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