Presentata nella stagione di musica contemporanea “Rondò” del Divertimento Ensemble l’opera da camera scritta a più mani da giovani compositori. La supervisione del lavoro era affidata a Peter Eötvös e Luca Francesconi
di Francesco Fusaro
TRE UOMINI IN BARCA, ma questa volta senza il cane. E pure senza le risate di Jerome K. Jerome: il libretto di Slawomir Mrożek sarebbe infatti un pugno nello stomaco da molti punti di vista. Il condizionale è d’obbligo e fra poco spiegheremo il perché. Nel linguaggio dell’horror si parla di cabin fever, cioè quel misto di panico, paranoia ed aggressività che è alla base di pellicole diverse come i recenti Frozen (Adam Green, 2010) e Adrift (Hans Horn, 2006). E se il cinema horror, come qualche critico suggerisce, fiorisce sempre nei periodi di maggiore difficoltà storica, economica e politica, tutte queste ambientazioni claustrofobiche dove l’umanità si rivela nella sua bestialità, nei fallimenti della sua organizzazione civile, qualcosa vorrà pur dire. Tre uomini si diceva; nell’allestimento del libretto firmato dai sei giovani compositori chiamati da Peter Eötvös e Luca Francesconi (il loro incontro con il pubblico del concerto è stato condotto da Anna Maria Morazzoni) a cimentarsi con quest’opera da camera collettiva in due versioni, si trattava di due uomini e una donna. Nessun mercimonio di carne come una situazione così estrema (i tre sono prigionieri non si capisce bene dove ma sono senza cibo e probabilmente spiati) poteva suggerire; o meglio, il mercimonio c’era ma riguardava l’alimentazione e il modo brutale per ottenerlo. Ricatti morali, retorica politica, alleanze perversamente subdole: per la sopravvivenza di due su tre personaggi tutto è lecito sul palco. Un testo così, si diceva, farebbe paura: perché sappiamo che queste cose sono già accadute nella storia dell’umanità. Non c’è fantascienza ma consapevolezza della brutalità delle dinamiche umane in situazioni estreme e gli esempi letterari ancora una volta si sprecano: lasciato perdere per una volta il conte Ugolino, potremmo citare Hunger Games di Suzanne Collins (dal quale hanno tratto l’omonimo film) o il ciclo The Drive-In di Lansdale, o ancora The Road di McCarthy.
Di fronte al messaggio, meglio, ai molti messaggi di questo testo sicuramente da recuperare, i sei giovani compositori, ai quali era affidato un singolo personaggio senza sapere che cosa facessero nel frattempo i colleghi, non hanno saputo forgiare una drammaturgia musicale altrettanto efficace. Il segno più evidente di questo stava nel (paradossale) generale appiattimento del linguaggio verso quelli che si potrebbero definire ‘stereotipi della ricerca musicale’: vocalità già note in contesti del presente e del recente passato avanguardistico; strumenti appiattiti verso un ruolo di fondale sonoro o di mickeymousing rispetto ai gesti dei cantanti; performance attoriali che spesso tendevano ad ammorbidire gli spigoli del libretto. In sinstesi: un’operazione bellissima, di innegabile buon livello musicale ed in linea con i concetti di condivisione e collaborazione propagandati nell’era di Internet ma che aggiunge di più al percorso di chi l’ha vissuta da compositore che non da spettatore.
Out at S.E.A. Someone Eats All opera da camera da un testo teatrale di Slawomir Mrożek libretto di András Almási-Tóth | musiche di Máté Balogh, Diana Soh, Christian Flury, Koka Nikoladze, Samu Gryllus, Mariana Ungureanu | Mercoledì 26 febbraio Auditorium Gruppo 24 Ore, Milano
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