Il violinista russo in concerto a Torino con l’Orchestra del Mozarteum di Salisburgo diretta da Marc Minkowski
di Attilio Piovano
UN VERO FUORICLASSE, il violinista Sergej Krylov. Anche chi non lo aveva mai sentito lo ha capito subito, lo scorso martedì 25 febbraio in apertura del mendelssohniano Concerto op. 64 dal superbo afflato, in occasione del quinto concerto di stagione per Lingotto Musica, a Torino, presso l’Auditorium ‘G. Agnelli’. Moscovita, già giovanissimo vincitore di prestigiosi concorsi, Krylov ha suonato con le principali orchestre del mondo, dalla Staatskapelle di Dresda alla Filarmonica di San Pietroburgo diretto da bacchette del calibro di Rostropovich e Ashkenazy, Gergiev e Temirkanov. Al Lingotto è approdato unitamente all’Orchestra del Mozarteum di Salisburgo diretta dal barocchista Marc Minkowski (quest’ultimo a vent’anni fondò Les Musiciens du Louvre ed è una vera autorità in tale territorio specialistico). Curioso accostamento, dunque: un russo dalla tecnica strabiliante, un barocchista alla guida di una blasonata orchestra austriaca, ovvero un complesso di serie A, senza dubbio, pur senza raggiungere i vertici delle massime orchestre mondiali e il più bel Concerto per violino del repertorio romantico. Krylov ha tecnica solidissima, intonazione impeccabile, pressoché perfetta, un magnetismo invidiabile, bel suono cantabile (emerso al meglio nel lirico tempo lento traboccante di tenerezza) agilità e spigliata verve. Il suo Stradivari ‘Scotland University’ del 1734 ha un suono non particolarmente corposo, ma limpido e dalla singolare trasparenza. E allora che gioia dopo la scioltezza dell’Allegro iniziale e il distillato melodico del tempo lento, l’ultimo movimento mai apparso così fresco e sorgivo: e pare attingere alla medesima linfa che alimenta il Sogno di una notte di mezza estate, coniugandosi con il lato più aprico della Sinfonia Italiana. L’orchestra del Mozarteum lo ha assecondato splendidamente, grazie all’ottima concertazione di Minkowski; appena in qualche momento ha mostrato un eccesso di esuberanza fonica sovrastando il solista. Tutti in visibilio e lunghi applausi. Ma il prodigio doveva ancora avvenire. Ed ecco Krylov prodursi in una mirabile ed assai efficace trascrizione della celeberrima (e organistica) Toccata e fuga in re minore BWV 565 che ha lasciato tutti stupefatti (l’ha realizzata Bruce Fox-Lefriche trasponendola in la minore). Krylov ha rivelato come un pezzo anti violinistico per eccellenza (con quel tema nato per il pedale dell’organo) possa diventare oggetto di funambolismi davvero unici (apprezzabile il passo che mima il cambio di tastiere giocato invece su diafani armonici). Ammirevole, davvero. E così pure il (forse più prevedibile) Capriccio n° 24 del ‘mago’ Paganini, eseguito in maniera pressoché perfetta. Magnetismo e compostezza, una professionalità altissima e una vera gioia per le orecchie ed il cuore.
In apertura s’era ascoltato di Čajkovskij il Capriccio Italiano del quale Minkowski ha forse evidenziato un po’ troppo i lati folklorici, oltre a quel carattere rapsodico e frammentario che ne costituiscono il fascino, ma anche il limite. Insomma un’immagine dell’Italia – quella di Čajkovskij – decisamente stereotipata e Minkowski, dandone una lettura pur brillante e tecnicamente ineccepibile, non ha fatto nulla per raffinare un poco e stilizzare gli eccessi e l’esuberanza di questa pagina di facile presa quanto superficiale e fatua. Poi il piatto forte di Shéhérazade, superba partitura di inarrivabile bellezza timbrica. Che, diciamolo, ha convinto solo in parte. Un po’ troppo trattenuto il primo pannello (Il mare e la nave di Sinbad) e il rischio di qualche sbadiglio era dietro l’angolo, palpabile, poi le Avventure del principe Calendo e quindi Il giovane principe e la giovane principessa. E certi tratti che volevano essere sognanti e soprattutto ‘devono’ risultare fiabeschi (armonicamente e melodicamente così prossimi a certi passi del Principe Igor di Borodin) sono apparsi ahinoi talora didascalici. E infine la policroma Festa a Bagdad popolata di tinnuli scampanellii e di melodie esotiche. E il naufragio della nave, con quel collassare di ondate sonore che ci si aspettava, ma non sono venute. Più che un veliero che s’infrange sugli scogli è parso un catamarano che si incagliava nella sabbia… Ottime le prime parti della Salburger Orchester, ottoni pur possenti, buone percussioni, ma a mancare era il respiro del mare, quella grandiosità che nell’ultimo quadro ti fa sognare e ti fa chiudere gli occhi dinanzi alle immaginifiche visioni dell’ufficiale di marina Nikolaj. Applausi pur affettuosi e convinti (ma senza alcun delirio). Per par condicio e per geometrica simmetria con l’esordio, ci aspettavamo il Capriccio Spagnolo (del genio dell’orchestrazione Rimskij, ça va sans dire) e invece tutti a nanna.
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