Sono le parole del direttore d’orchestra Matteo Beltrami, all’Opera di Firenze con il titolo di Bellini
di Michele Manzotti
IL Belcanto visto da un direttore d’orchestra. È stato affidato a Matteo Beltrami il podio de I puritani di Vincenzo Bellini andato in scena all’Opera di Firenze. Tra i protagonisti dell’allestimento del lavoro, scritto nel 1835 e rappresentato per la prima volta a Parigi, il soprano Jessica Pratt nel ruolo di Elvira (festeggiatissima dal pubblico) e Antonio Siragusa in quello di Arturo, mentre la regìa è stata curata da Fabio Ceresa. A Beltrami, che abbiamo incontrato durante le prove, il compito di raccontare questa edizione in coproduzione con il Teatro Regio di Torino.
Qual è la sua visione de I puritani nel catalogo operistico italiano?
«È l’ultima opera composta da Bellini che ha avuto sin dal primo momento un grandissimo successo. Un fatto dovuto anche alla presenza di splendide melodie di sicura presa sul pubblico. Ma sopratutto è un lavoro che chiede molto ai cantanti, tanto che non viene eseguito spesso. Interpreti in grado di affrontare una performance eccellente in quest’opera non sono facili da trovare, penso soprattutto ai ruoli di Arturo ed Elvira».
I puritani rappresentano una delle opere simbolo del Belcanto italiano. Cosa chiede a un interprete, oltre ovviamente a dare il meglio da un punto di vista tecnico?
«Purtroppo questo repertorio in un certo senso è stato maltrattato. In nome della filologia era scomparso un modo di affrontare opere di questo tipo che era sostanzialmente giusto. Non dobbiamo dimenticare che lavori come I puritani nascono dalle voci e che Bellini partiva dalla melodia (componendone di bellissime) e in un momento successivo scriveva per l’orchestra. Questo non vuol dire che i cantanti possono fare quello che vogliono come quelli che in anni passati cambiavano la musica a loro piacimento, ma bisogna tenere conto che alle voci è affidata sempre la parte tematica e la melodia».
Quanto aiuta la drammaturgia dell’opera il lavoro del direttore d’orchestra?
«Siamo in un periodo in cui il lavoro d’équipe dove la visione del direttore e del regista può concorrere in un’unica direzione e fornire in questo modo uno spettacolo che abbia un’identità precisa. Per questo ci siamo trovati d’accordo con Ceresa e con i cantanti, disponibili oltre che bravi, per creare una visione condivisa da tutti di questo capolavoro. Non è l’unica possibile, né forse la migliore e non spetta a me dirlo. Di sicuro la stiamo prendendo tutti molto sul serio».
Il suo impatto con questo nuovo teatro a Firenze?
«Sono rimasto stupito dalle infinite possibilità di questa struttura e dalla presenza di più palcoscenici grazie agli spazi. La sala poi è molto bella. Ma solo pensando alla sua storia, essere a Firenze è comunque importante».