Al giovane e talentuoso Vadym Kholodenko, pianista ucraino di straordinaria bravura, con un palmarès incredibilmente ampio e di altissimo livello, onere ed onore di inaugurare la sera di mercoledì 12 ottobre 2022, a Torino, in Conservatorio, la stagione 2022-23 dell’Unione Musicale: la prima firmata dall’ottimo ed iper attivo Antonio Valentino – pianista dalla vasta esperienza solistica e cameristica, apprezzato docente del Conservatorio di Torino, dunque musicista di razza egli stesso – dopo i lunghi decenni di ‘gestione’ affidata alla firma del navigato Giorgio Pugliaro.
Kholodenko vanta una formazione tutta entro l’alveo della grande cultura musicale russa, erede dunque della rinomata scuola pianistica sovietica a conferma di come Russia ed Ucraina culturalmente, e non solo, appartengano a una medesima matrice, sì da rendere ancora più crudo un conflitto ‘civile’ – ci sia concesso – ovvero tra fratelli, quello attualmente in corso e che, purtroppo, non sembra al momento contemplare alcuna concreta via in direzione della pace. È di pochi giorni fa la tremenda notizia – resa nota da fonti ministeriali di Kiev e battuta dalle più autorevoli agenzie mondiali – della barbara uccisione, a casa sua a colpi di arma da fuoco, da parte di esponenti dell’esercito russo, del direttore d’orchestra ucraino Yuriy Kerpatenko: colpevole di essersi rifiutato di dirigere, alla guida della Filarmonica del Kherson Music and Drama Theatre, un concerto organizzato dalle forze di occupazione. Una notizia che ci dà la misura, se mai avessimo avuto necessità di ‘conferme’, di quanto ormai l’escalation del conflitto russo-ucraino abbia raggiunto intollerabili livelli di brutalità, coinvolgendo inermi e altresì il mondo della cultura.
Quanto a Kholodenko, suona in tutto il mondo con risultati di alto livello, diretto dalle più insigni bacchette. Non basta. È sposato con Alena Baeva, valente violinista russa e con lei tornerà a Torino in febbraio: a riprova di come i sentimenti vadano ben oltre le ragioni di stato. E allora fa piacere constatare come la stagione dell’UM, non certo a caso, s’intitoli Classica Unione, a sottolineare – utopisticamente – come il linguaggio universale dei suoni possa unire i popoli. Continuiamo a crederci, strenuamente: ancorché la notizia riportata più sopra collida con questa visione ideale, che pure siamo ancora in molti a professare.
Tocco elegante, raffinatezza espressiva e tecnica impeccabile, insomma gli ingredienti caratteristici della mitica scuola pianistica russa, sono tra le più vistose caratteristiche del ‘nostro’. Kholodenko ha esordito nel segno del sommo (e sovietico) Prokof’ev proponendo innanzitutto i Quattro pezzi op. 32 (mai eseguiti nell’ambito dei concerti targati UM, per quanto singolare possa apparire), pagine piene di arguzia, languore e anche quello spirito grottesco e graffiante che di Sergej (morto lo stesso giorno di Stalin, tant’è che la notizia venne nascosta per settimane) costituiscono la vera e propria firma; pagine di colore smaccatamente slavo, amabili e gradevoli, nel loro riconoscibile mix di elementi spesso attinti al folklore. E allora ecco in apertura una Danza dalle acidule armonie, dai ritmi un poco sghembi e dai climi vagamente straniti, tutti elementi che Kholodenko ha saputo perfettamente mettere a fuoco, accattivandosi immediatamente la simpatia del pubblico. Per poi fiondarsi nel clima neoclassico sui generis del garbato e breve Menuet, non privo di un suo certo humour. Bene poi anche la suggestiva Gavotte dalla zona centrale raggelata e striata di echi modali, quindi, da ultimo, l’espressività di un Waltz singolarmente lento, costellato di magie timbriche che Kholodenko è riuscito ad illuminare di una luce specialissima. Una piacevole rivelazione, con quei tratti acuminati come stalattiti.
Breve annotazione storica: i Quattro pezzi op. 32 risalgono al 1918 quando Prokof’ev era giunto a New York, proveniente dal Giappone, dopo aver compiuto un lungo e avventuroso viaggio attraverso la Siberia per sfuggire alla guerra civile. La storia si ripete ma, a quanto pare, non ci ha insegnato nulla. In tasca aveva meno dei 50 dollari necessari alle formalità doganali richieste per poter subito lasciare la famigerata Angel Island ed entrare ufficialmente negli USA, sicché Prokof’ev fece quarantena all’ufficio immigrazione per il tempo necessario di poter contare su una colletta della comunità russa di Chicago, sì da affrancarsi.
Kholodenko ha poi strabiliato misurandosi ancora con le difficoltà della scrittura di Prokof’ev, nello specifico affrontando l’impervia e notissima Settima Sonata op. 83 (1943) dal finale diabolico e percussivo (Precipitato), un vero e proprio tour de force che richiede saldezza di nervi, concentrazione massima, pianismo agguerrito, forza fisica, dita d’acciaio e altro ancora. Ma quanta sapienza e che magia di tocco sfoderate nell’Andantino venato di tenue lirismo (non immemore di certo Skrjabin) e così pure tra le pieghe della mestizia che aleggia inesorabile entro il toccante Andante doloroso, quasi esplicito e dichiarato hommage allo Chopin degli Studi op. 10, prima delle conclusive deflagrazioni del finale cui si accennava, vero emblema del percussivismo crudo, energetico e a tratti feroce così tipo del pianismo dell’autore di Pierino e il lupo e della Sinfonia Classica. Un vero trionfo e applausi ruggenti da parte di un pubblico ahinoi meno folto del comune (anche l’UM infatti con la pandemia ha purtroppo perduto una quota di abbonati che, ce lo auguriamo, ben presto verranno in qualche maniera recuperati, ovvero rimpiazzati da nuovi adepti).
Meno nelle corde di Kholodenko, invece, lo stile schubertiano, sicché la giovanile Sonata D 568 (che pure non è un capolavoro) è risultata un po’ scialba. Scritta nel 1817 da uno Schubert appena ventenne e tagliata in tre soli movimenti, la pagina venne poi ‘ampliata’ e strutturata in quattro ‘pannelli’. Venne pubblicata postuma nel 1829 e di fatto, occorre ammetterlo, non si è mai conquistata un posto d’onore accanto ai capolavori assoluti del catalogo schubertiano.
Non così i sublimi Drei Klavierstücke D 946 affrontati con intensità e pathos (pur con qualche eccesso ‘alla Rachmaninov’). Quanta emozione nelle raffiche ineluttabili del primo brano, innervato da una febbrile frenesia che pare placarsi solamente nella più rarefatta zona mediana. Quanta grazia poi sfoderata da Kholodenko tra le pieghe carezzevoli del secondo Klavierstück, che come noto si apre in un clima di tenera barcarola. Infine l’ottimismo virtuosistico e vitalistico dell’ultimo in do maggiore, tutto sfavillanti luminescenze e modernisti spostamenti di accento. Una gioia per le orecchie e per il cuore ascoltarli nell’interpretazione suggestiva di Kholodenko.
Dei due bis ha commosso il Quinto degli organistici Preludi a Corale op. 122 che Brahms tristemente vergò in morte dell’adorata Clara Wieck-Schumann: lo si è ascoltato nella sapiente trascrizione di Busoni, mentre in Mozart (Rondò in re maggiore K 485) Kholodenko è risultato sì garbatamente corretto, ancorché zuccheroso e garrulo: restituendo un sound un po’ vecchia maniera. e riducendo di fatto il brano a una serie di pur gradevoli, ma superficiali scorribande di scale o poco più. E pazienza, una piccola occasione perduta a fronte di un concerto mediamente di alto livello.