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Dei molti concerti pomeridiani, entro il versante torinese del cartellone di MiTo da poco conclusosi, ne abbiamo scelti due: assai dissimili, ma ugualmente meritevoli di sottolineatura.
Certo, molti altri appuntamenti avrebbero meritato di essere adeguatamente recensiti – dal medaglione lisztiano nell’anno del 200°, affidato a vari e giovani pianisti, a significativi appuntamenti con la musica antica, con il repertorio da camera ed altro ancora, fiabe, concerti trasversali, musica contemporanea, repertorio organistico, jazz, ensembles di fiati, teatro da camera e via dicendo – ma tant’è. Martedì 20 settembre, eravamo presso l’Aula Magna del Politecnico dalla straordinaria acustica, per il bel concerto di Edoardo Zosi (violino) e Saskia Giorgini (pianoforte). Un vero duo: due signori musicisti dal forte temperamento, affiatati ed agguerriti, tecnica entrambi solida e notevole sensibilità interpretativa, ad onta della giovane età (classe 1988 il milanese Zosi e 1985 la torinese Giorgini, e così è fatta salva la… par condicio geografica).
Sala gremita all’inverosimile e un programma di grande appeal. Specie nella seconda parte che ha visto l’esuberante e pur sorvegliatissimo Zosi dalla sicura intonazione fiondarsi con un entusiasmo senza pari nella bella trascrizione di Zoltan Székely delle rapinose «Danze popolari romene» di Bartók: in cui ha sfoderato un suono corposo (grazie anche ad un’eccezionale strumento, un Santo Serafino del 1745 posto a disposizione dalla Fondazione Pro Canale), ma anche delicatezze indicibili, ben assecondato dall’ottima Giorgini. I due poi hanno letteralmente trionfato nell’esecuzione della «Terza Sonata, op. 25» di Enescu, il capolavoro cameristico del musicista romeno che godette della stima e dell’amicizia di Ravel (e si sente, un occhio al folklore, un occhio a Bartók ed un saldo senso della forma). I due l’hanno eseguita in modo non solo tecnicamente ineccepibile, ma con un entusiasmo ed un’appropriatezza di stile che raramente è dato scorgere in ben più ‘anziani’ ed esperti musicisti. Del resto Zosi suona da quando aveva tre anni e la Giorgini da quando ne aveva quattro: entrambi un palmarès di meritati riconoscimenti. Due nomi da tenere d’occhio in futuro: faranno strada. Specie quando i loro programmi si sbilanciano (piacevolmente) sul ‘900 storico, territorio privilegiato, per lo meno al momento attuale, secondo il nostro parere.
La beethoveniana «Sonata a Kreutzer» proposta in apertura è parsa infatti sì a posto, eseguita in maniera inappuntabile (la Giorgini ha tecnica da vendere, ma il suo suono talora pareva fin troppo ‘granitico’), pur tuttavia non memorabile (il tempo lento è parso offuscato da qualche monocromia). Sono giovani ed hanno tempo di maturare ancora e in breve – ne siamo certi – nessuna tranche del repertorio avrà segreti per loro. Per ora è sul ‘900 storico che sbaragliano in maniera strepitosa. Li vorremmo ascoltare in un’integrale dell’opera da camera di Enescu, magari accostata a quella di Ravel (in due serate, ça va sans dire): un doppio programma a tesi che aprirebbe spiragli davvero inconsueti, per un pubblico colto e curioso, desideroso di accostamenti inconsueti e percorsi inediti o quasi. E Zosi-Giorgini hanno le carte in regola per suscitare emozioni.

Il giorno prima, in Conservatorio, avevamo ascoltato le Variazioni Goldberg proposte al clavicembalo da Onofrio Della Rosa. Una bella sfida, oggi in epoca di super filologia e nel contempo di spregiudicate operazioni, da Glenn Gould in avanti, proporre sull’arcaico (e pur corretto) strumento il sublime capolavoro bachiano, sempre più spesso scippato dai pianisti. E allora, per ‘reggere il confronto impervio’ occorre saper interessare il pubblico tenendo desta l’attenzione per l’intera durata (magari sacrificando qualche ritornello). Cosa non facile: vuoi per ragioni acustiche (ma come si fa a scegliere una sala più piccola se il Conservatorio era affollato al completo?), vuoi per la necessità di fermarsi ed accordare lo strumento (Della Rosa certo non avrebbe voluto, ma ha dovuto cedere quando già molte variazioni, specie nell’uso dell’unione di tastiere, avevano sofferto di suoni calanti…), vuoi per la necessità di trovare i giusti fraseggi e il calibrato mix di brillantezza, pulizia di suono, stacco dei tempi. Non tutto ha funzionato: certo il parziale fuggi fuggi del pubblico dinanzi al valido Della Rosa è solo indice di incallita maleducazione e non certo di poco gradimento, e infatti a fine serata gli applausi dei più sono stati assai corposi e in buona parte meritati. Da tempo non ascoltavamo l’intero blocco delle «Goldberg» al clavicembalo. Certo, esecuzioni come quelle di un Leonhardt o un Ton Koopman lasciano il segno, altre un po’ meno. Un plauso speciale all’ottimo programma di sala a firma dell’esperto Dinko Fabris (vero e proprio saggio critico, agile e corposo, da conservare).
Attilio Piovano