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Al Teatro Malibran di Venezia è andata in scena, per la stagione del Teatro La Fenice, l’opera Acis and Galatea di Händel
L’omaggio alla meraviglia dell’opera barocca, nelle stanze del fu gloriosissimo Teatro di San Grisostomo (oggi Malibran e altra sede delle produzioni del Gran Teatro la Fenice), ha portato a Venezia, in una delle ultime produzioni della stagione 2010/2011, Acis and Galatea di Georg Friedrich Händel nella versione composta a Cannons durante l’estate del 1718, dieci anni esatti dopo la cantata italiana Aci, Galatea e Polifemo. Asciutto, essenziale, composto per cinque cantanti che si alternano tra soli e coro (qui portati ad otto), di un’orchestra leggera, senza viole, il lavoro –che racconta uno dei miti più belli dell’antichità, quello di Acis ucciso dal geloso Polifemo e trasformato in fiume per unirsi in eterno all’abbraccio di Galatea, dea marina– è un piccolo gioiello di festa danzante, quel masque inglese che ingloba sfarzose scenografie, balletti e canto, per lo più en plein air.
A Venezia il progetto arriva dopo le recite di Aix-en-Provence tenute nel luglio scorso, nell’ambito di un’interessante cooperazione tra il Festival d’Aix, l’Opera Academy di Verona e la Fondazione Teatro La Fenice, che porta in scena i giovani interpreti dell’Académie européenne de musique affidati alle cure del concertatore argentino Leonardo Garcia Alarcon e del regista Sabura Teshigawara, già apprezzato in Fenice lo scorso anno per Dido and Aeneas di Purcell. Teshigawara, nello stile di una regia che è essenzialmente coreografia, mette al centro il corpo chiedendo molto agli interpreti sotto il profilo scenico. «Ho chiesto a Galatea di essere terra mobile, e ad Acis di pensarsi come acqua viva», spiega il regista giapponese. Il risultato è una scena nuda, con alcuni dettagli arcadici (il manto erboso, i covoni), video acquatici e boschivi in dissolvenza, e gli interpreti che cantano e danzano in una originale ed interessantissima sincronia tra respirazione e movimento.
Trentacinquenne, argentino di La Plata, Leonardo Garcia Alarcon è direttore in residence ad Ambronay, fondatore della Cappella Mediterranea e profondo conoscitore della musica seicentesca; orizzonte che sta ampliando al barocco maturo. Il suo Händel ha una fluidità che si fa apprezzare, a volte la scelta dei tempi è personale (spicca, sull’accelerazione generale, la lentezza del terzetto “The flock shall live the mountains”), ma il direttore è stato a ragione molto ammirato per il lavoro svolto con i cantanti e il complesso stabile della Fenice (che ha dato ottima prova di sé) e per l’attenzione alla dinamica buca/ scena.
Il primo cast, ascoltato nella recita di domenica 30 ottobre, riserva belle sorprese. La Galatea di Joëlle Harvey è risultata il personaggio più riuscito sia sotto il profilo vocale sia nella quadratura musicale e scenica: meno sonora nella prima ottava, ha colto il suo momento più interessante nell’aria “Must I my Acis” dove abbina con padronanza filati elegantissimi a frasi di grande intensità vocale. Pascal Charbonneau è un Acis in progress: tecnicamente agguerrito, dotato di un timbro un po’ aspro, si disimpegna con grande valore chiedendo forse un po’ troppo alla sua tenuta nel da capo dell’ aria “Love sounds the alarm”. Il Polypheme di Grigory Soloviov è sulla carta la voce più importante di questa produzione. E abbina momenti di grande appeal (l’accompagnato “I range” e il terzetto) ad alcuni equivoci stilistici (i passi di agilità risultano spoggiati). Sporzionato, nero, monocolo in tutina di lurex, è risultato ideale dal punto di vista visivo. Delizioso il quintetto dei pastori, emozionante la loro intonazione nel dolente “Mourn, all ye muses!”, con una nota di merito per il Coridon di Zachary Wilder. Il pubblico ha dimostrato di apprezzare questa commistione visiva di elementi anciens in ottica moderna, avvolto dal privilegio di una musica di rara eleganza. che racconta uno dei miti più belli dell’antichità, quello di Acis ucciso dal geloso Polifemo e trasformato in fiume per unirsi in eterno all’abbraccio di Galatea, dea marina.
Elena Filini
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