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Il pianista ha suonato e diretto l’integrale dei cinque concerti di Beethoven
di Attilio Piovano
Davvero valida la scelta dell’Unione Musicale di Torino di affidare ad Alexander Lonquich l’integrale dei «Cinque Concerti per pianoforte e orchestra» di Beethoven, in due serate ravvicinate [cfr. nostra intervista al pianista, su questa stessa rivista] per una doppia inaugurazione della propria stagione 2011-2012. Pianista dalle doti eccezionali – Lonquich – impegnato anche come direttore, alla guida dell’Orchestra da Camera di Mantova dalle esperte prima parti e dal bel suono corposo. Spesso si ascoltano direttori che vanno nella direzione opposta rispetto al solista ed allora il pubblico avverte la frizione, il gap: quando un direttore ed un pianista hanno concezioni interpretative differenti è pressoché inevitabile. Con un unico interprete a governare in toto l’esecuzione questo ovviamente non accade. E pur vero che, per contro, una bacchetta sul podio dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) garantire la perfezione di insieme (negli gli attacchi, soprattutto nella simultaneità di certi passaggi insidiosi), benché non è detto che ciò avvenga sempre, mentre con un solista-direttore pur della caratura di Lonquich è inevitabile che qualche piccola sbavatura in tal senso si verifichi. Ma non è questo il punto. La bellezza della lettura di Lonquich, pianista e direttore, ha convinto subito tutti, per la coerenza e l’appropriatezza stilistica, per la bellezza del suono e per mille altri dettagli: non a caso le due serate hanno registrato un successo a dir poco eccezionale tant’è che come bis la prima sera Lonquich ha per intero replicato il finale del «Secondo Concerto» e la seconda sera, dopo il massacrante impegno di «Quarto» e «Quinto», ha replicato il finale del «Primo», nuovamente introducendolo con brevi parole volte a lumeggiare il percorso stilistico beethoveniano.
E proprio questo è il pregio di una integrale. Il pubblico in due sere ha potuto verificare la strada percorsa dall’autore della «Nona», dal classicismo mozartian-haydiniano del «Concerto n° 2 op. 19» (di fatto, si sa, il primo ad essere stato composto) giù giù sino al Romanticismo ‘avanzato’ e visionario del «Quinto» guadagnatosi l’epiteto di ‘Imperatore’. Lonquich dei primi due «Concerti» ha molto evidenziato lo humour dei finali: superlativo il Rondò dell’«op. 15», per brillantezza di suono, rimbalzato dalle risposte orchestrali con un timbro, comme il faut, da musica rivoluzionaria. E poi la cura dei dettagli: quel tema caratteristico, quasi un tema ‘samba’ dai provocatori ed eccentrici spostamenti di accento, quei passi pseudo-turcheschi (o ungheresi, che è la stessa cosa, secondo i parametri dell’epoca) ai quali Lonquich ha conferito pigmento, sapido colore e giusta rilevanza, ma senza mai forzare la mano, con sommo gusto ed eleganza (anche nell’«op. 19» c’è qualcosa di analogo, un terzo tema del Rondò, verso battuta 126, per chi ha voglia di andarlo a verificare in partitura…). Sempre nell’«op. 19» Lonquich ha poi meravigliosamente scolpito i temi, dando ad esempio vigore e rustica bonomia al tema principale del Rondò, ma accarezzandolo poi con indicibile soavità quando questo appare (un’unica volta, ed è un vero prodigio) nella sua primigenia formulazione con un più prevedibile accento su un naïf basso albertino (a battuta 262, per i maniaci del testo); cesellando nel contempo le delizie dei tempi lenti: stupende le sonorità ambrate dell’Adagio dell’«op. 19» e così pure l’affettuosa allure conferita al Largo dell’op. 15. ammirevole la chiarezza dell’articolazione nei passaggi rapidi, perfezione tecnica assoluta ed un uso sapiente del pedale, sobrio, ma efficace.
Poi, con l’opaco do minore del «Terzo Concerto», ecco palpabile la sensazione di trovarsi dinanzi ad un altro compositore, come se fossero trascorsi decenni, ed invece di una manciata di anni appena si trattava. E allora il suono vigoroso dell’attacco, fantomatico, ineluttabile. E poi quella scala granitica che apre l’esordio del solista. Ma anche qui, mille delizie di particolari, specie sul versante solistico (qualche dettaglio invece non del tutto a fuoco nella concertazione dell’intero ciclo, occorre segnalarlo, a onor del vero, ma è pressoché impossibile per un solista-direttore star dietro a tutto…). E ancora, sempre nel «Terzo» la tenerezza indicibile del secondo tema, quello in mi bemolle dalla soave tornitura melodica da ‘società filantropica’, e via elencando: occorrerebbe soffermarsi, per dire, sulla cura certosina dedicata da Lonquich alle cadenze, fitte di gemme preziose uscite dalla fucina del sonatismo beethoveniano. E quegli squarci sul Romanticismo del Largo, col pianoforte che ‘accompagna’ talora l’orchestra: intuizione poi ripresa nel «Quarto» e nel «Quinto» in celeberrimi passaggi dal suono perlaceo.
Il «Quarto» dunque (che Lonquich in intervista dichiara di preferire, e si sente): qualche sguardo interrogativo per un arpeggio vistosamente esibito in apertura del celeberrimo esordio (non pare trovare riscontro in partitura, forse in qualche versione inedita… chissà, dovremo andare a rileggerci le riviste di musicologia, scoprire l’arcano e scusarci per l’ignoranza) peraltro ha avuto il pregio di catturare subito l’attenzione e concentrare il pubblico su una lettura volta a prefigurare il suono per così dire cameristico (talora forse fin troppo), il colore specifico, la stimmung peculiare della partitura dedicata all’amato Arciduca Rodolfo. Lettura poi proseguita con il movimento centrale, quel mirifico dialogo di gluckiana memoria tra le furie orchestrali, minacciose e impavide, ed il delicato (e pur convincete) Orfeo alla tastiera (stupendo è risultato il passaggio cadenzante, quasi anticipazione dell’impressionismo debussiano con la sinistra delirante e le iridescenze dei trilli della destra, ma senza gli eccessi di alcuni, con molta sobrietà e pur incisiva determinazione) e, da ultimo, lo sfolgorio nervoso del finale.
Superba interpretazione infine dell’Imperatore che ha strappato applausi insistenti e cadenzati. Lonquich ha saputo infatti conferire la giusta grandiosità al tutto, evitando però la magniloquenza retorica di certe esecuzioni, una vera lezione di stile, insomma, salutata da un successo pieno. Qualche eccesso da parte del timpano (un poco invasivo in un paio di vistosi e troppo rumorosi passaggi) ma ottime prime parti, il fagotto, il corno e così via. Da ultimo, dopo la replica del Rondò dell’«op. 15» di cui si è detto, Lonquich ha ancora regalato al pubblico una delle sublimi «Bagatelle op. 126», la seconda, quella in sol minore: e bis solistico più centrato non poteva esistere: c’è dentro tutto l’ultimo Beethoven, le di poco antecedenti «op. 106» e «op. 109» e financo le profetiche visioni della «110». Delirio di pubblico, il rito degli autografi ed il lungo conversare e confrontarsi dei sedicenti conoscitori nel foyer, al termine di due serate delle quali i torinesi musicofili doc conserveranno a lungo un gradito quanto nitido ricordo.
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