Il pianista è impegnato all’Unione Musicale di Torino con i cinque concerti per pianoforte e orchestra di Beethoven
di Attilio Piovano
L’integrale dei «Cinque Concerti» per pianoforte orchestra di Beethoven, per una doppia inaugurazione della stagione 2011-2012 dell’Unione Musicale a Torino in Conservatorio. Vero e proprio demiurgo di tale impresa Alexander Lonquich nella doppia veste di pianista e direttore, affiancato dall’Orchestra da Camera di Mantova. L’11 ottobre la prima tranche con i primi tre concerti e ieri sera è stata la volta del «Quarto» e «Quinto». A presto dunque per un bilancio complessivo, ovvero per una recensione che renda conto delle opzioni interpretative poste in atto nell’affrontare l’intero ciclo. Nel frattempo abbiamo raggiunto telefonicamente Lonquich stesso che, molto cortese e disponibile, accetta di rispondere alle nostre domande per un’intervista in esclusiva per i lettori del Corriere Musicale.
Un’impresa di indubbio rilievo, per l’interprete, certo, ma anche per il pubblico, è così?
«Sì, certo; la cosa più importante a mio avviso è tentare di ridimensionare il carattere per così dire feticistico dei concerti, il «Quinto», soprattutto, il cosiddetto ‘Imperatore’, a favore di una lettura che privilegi l’aspetto evolutivo del pensiero beethoveniano».
Pianista e nel contempo direttore. Una scelta precisa che punta sulla coerenza interpretativa?
«Sì, certamente, del resto le cose sono facilitate quando si lavora con un’orchestra con la quale si è creato un proficuo sodalizio, si stabilisce una sintonia di intenti, di pensiero interpretativo, e poi all’epoca di Beethoven era prassi del tutto normale…».
Lei ha scelto di disporre il pianoforte trasversalmente rispetto al pubblico, al contrario di altri che suonano dando le spalle alla sala, quindi con tanto di coperchio, al fine di specchiare il suono e riverberarlo, pur col rischio di penalizzare leggermente gli esecutori posti nella parte più arretrata…
«Sì, qualcosa occorre comunque sacrificare, tuttavia privilegiare il suono del pianoforte e la sua collocazione acustica ottimale mi pare senza dubbio importante, la scelta migliore direi…».
Lo humour beethoveniano, riscontrabile specie nei Rondò finali dei primi tre concerti è un aspetto che emerge nitido nella sua interpretazione: non a caso ieri sera è stato replicato per intero il finale del Secondo concerto, smaccatamente sbilanciato sul versante umoristico…
«Sì, è un aspetto senza dubbio importante; del resto già in ambito ottocentesco si insisteva su tale aspetto. Hoffmann per esempio ne parla. Lo humour di Beethoven è qualcosa di diverso da quello di Mozart, meno sottile, più… bonario, più… rustico…».
Quale secondo Lei il rapporto tra le sonate e i concerti?
«Con i concerti Beethoven si porta da un ambito più aristocratico ad un ambito più popolaresco, va incontro al pubblico. Le sonate sono su un territorio senza dubbio più esoterico…».
Beethoven stimava grandemente il mozartiano Concerto K 466, l’unico che avesse in repertorio. Qual è secondo Lei il maggiore debito di Beethoven nei confronti di Mozart?
«Beethoven prende in mano la forma del concerto esattamente nel punto in cui l’aveva lasciata Mozart e la personalizza. Interessante al riguardo il confronto tra il mozartiano Concerto in do minore [il K 491 N.d.R.] e quello di Beethoven nella stessa tonalità [il n° 3 op. 37 N.d.R.]. Beethoven è più affermativo, più assertivo…».
E il debito nei confronti di Clementi?
«Riguarda il tipo di fraseggi: riguarda in special modo il legato, rispetto al suono più articolato di Mozart».
Qual è il suo rapporto con il pubblico di Torino?
«Da molti anni suono a Torino e sempre con vivo piacere, è come ritrovarsi tra vecchi amici, si suona in un clima disteso di simpatica amicizia…».
Dei cinque concerti qual è quello preferito da Lonquich?
«Difficile rispondere… direi il Quarto. Sì, senz’altro».
La partitura pianistica che si porterebbe sull’isola deserta?
Ride di gusto e poi risponde in un fiato senza esitazioni: «Nessuna, per carità, rischierei di annoiarmi».
E quella sinfonica?
«La «Nona» di Mahler, per studiarla a fondo».
I sogni nel cassetto come pianista?
«Tanti: sono molte le partiture che si vorrebbero suonare ed offrire al pubblico… mi piacerebbe dedicare ancora più spazio al ‘900, alle molte partiture per lo più inedite o sconosciute del ‘900 che meriterebbe far conoscere…».
E come direttore?
«Idem, mi piacerebbe dedicare più spazio al Novecento e poi proseguire sulla strada già imboccata».
Il compositore che vorrebbe riportare in vita per intervistarlo?
«Mozart, senza dubbio, ma non per intervistarlo, bensì per poterlo vedere al lavoro».
E il pianista del passato che vorrebbe incontrare per carpirgli i segreti?
«Ancora Mozart».
Lei dedica molto del suo tempo alla didattica nel senso più ampio del termine. Quale consiglio ad giovane che si dedichi alla carriera?
«Essere molto versatile, dedicarsi alla musica da camera, oltre che al solismo, occorre fare molta musica da camera per completare la propria formazione; e poi approfondire la propria cultura e, al termine di un percorso di studio, mettere a fuoco la propria indole e… seguirla».
Le prove ormai incombono. Lo ringraziamo e ci congediamo dandoci l’appuntamento a stasera in camerino, dopo L’Imperatore per riprendere il filo dei nostri ragionamenti.
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