Il direttore ha dato lettura magistrale dei due compositori nel nuovo Teatro dell’Opera di Firenze il 23 dicembre
di Michele Manzotti
Verso il finale del concerto accade qualcosa di singolare in scena. Le luci si spengono progressivamente a partire da quelle che illuminano percussioni e ottoni, per proseguire con quelle su contrabbassi e secondi violini fino a quelle che circondano il podio. L’adagio finale della nona sinfonia di Gustav Mahler con i suoi pianissimi è così letto anche visivamente oltre che nelle sue sonorità. Un’interpretazione di lusso, dato che a dirigere la pagina del compositore boemo c’era Claudio Abbado, uno dei grandi interpreti della musica mondiale. Già nel 1978 Abbado propose una memorabile lettura della terza sinfonia di Gustav Mahler al Teatro del Maggio di Firenze. 33 anni dopo, il nuovo Teatro dell’opera fiorentino ritrova il direttore, questa volta alla guida dell’Orchestra Mozart di Bologna con elementi di quella del Maggio, sempre con lo stesso compositore in programma al quale è stato aggiunto Johannes Brahms con il suo Schicksalslied per coro e orchestra.
Abbado è stato uno dei protagonisti degli ultimi sei decenni di musica ad alto livello e non poteva mancare alla settimana di concerti che inaugurava il nuovo teatro fiorentino. Una struttura di grande effetto visivo al suo esterno e nella grande sala da 1800 posti destinata in futuro anche alle produzioni liriche. Un modello architettonico che ricorda le realizzazioni estere (ricordiamo l’Opéra Bastille di Parigi o il Palau de la Musica di Valencia) tanto invidiate per linee geometriche e tempi di costruzione. L’acustica della sala permette agli interpreti di valorizzare al meglio le loro letture, specie se si tratta di brani raffinati e complessi come i due nel programma scelto da Abbado. Il quale, esattamente come 33 anni fa, ha suscitato una reazione entusiasta del pubblico (tra il quale c’era Roberto Benigni, suo collaboratore in Pierino e il Lupo di Sergej Prokof’ev) che ha applaudito per oltre venti minuti, anche quando l’orchestra era andata già via.
L’inizio era affidato alla pagina di Johannes Brahms, scritta nel 1871 su testo del poeta Friedrich Hölderlin sulla tematica del destino umano e della sua contrapposizione con il mondo celeste e trascendente. Un lavoro completato da Brahms dopo la stesura del Deutsche Requiem, e che contiene degli elementi legati al linguaggio religioso. Un aspetto sottolineato particolarmente nella lettura di Abbado con il coro del Maggio musicale, preparato da Piero Monti, che si è mosso con abilità nelle pieghe del testo e nelle dinamiche della partitura.
La sinfonia mahleriana del 1909, caratterizzata come le altre dell’autore da una vasta dimensione orchestrale (sono previste due arpe, legni come ottavino e clarinetto basso, doppi timpani, campane tubolari) si snoda lungo quattro movimenti con i due lenti posti in apertura. Sono le pagine più complesse, che simboleggiano anche in questo caso un destino incombente quasi come un Requiem senza testo. Ma la drammaticità lascia il posto al lirismo, al raccoglimento, alla preghiera. Mentre il secondo e terzo movimento mostrano un Mahler legato al canto, alla danza, a espressioni popolari che evidenziano la fisicità del genere umano. In contrasto con la trascendenza che è evidenziata maggiormente nel quarto tempo con il pianissimo finale che è uno sguardo verso l’alto.
Non è mai un compito facile rendere al meglio la bellezza e la complessità di questo lavoro. Abbado ha diretto a memoria e con sicurezza una compagine orchestrale che da anni lo asseconda nelle interpretazioni di altri compositori. La preparazione dei legni e degli ottoni, la sensazione di compattezza di tutti gli archi sono state un elemento di forza per una lettura che ha evidenziato ogni cellula melodica uscita dalle singole battute. Un’esecuzione che ha onorato il nuovo teatro fiorentino, ma specialmente che ha mostrato un Abbado maturo come non mai, paradossalmente destinato a scalare vette interpretative ancora più alte.
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