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Continua il nostro omaggio al compositore ungherese nel bicentenario della nascita, questa volta da una prospettiva insolita: i rapporti della sua musica con l’arte coreutica. Pressoché inesistenti durante la sua esistenza, sono fioriti nel corso del Novecento grazie al lavoro di illuminati coreografi, che hanno avuto il merito di contribuire alla stessa ricezione della produzione lisztiana
di Ida Zicari
La storia di Liszt e la danza è una storia postuma. Durante la sua lunga carriera, il musicista ungherese ebbe sporadici contatti con l’arte coreutica. Solo i canonici inserti ballettistici all’interno dell’opera giovanile Don Sanche ou le Château d’Amour figurano come musica che Liszt compose con esplicita destinazione coreografica. Poi, niente più. Anzi, l’opinione che in due occasioni ebbe modo di esprimere sull’arte tersicorea rivela tutto il suo disappunto. La programmazione ballettistica in cartellone all’Opéra di Parigi nel 1835 è per lui nient’altro che «detestabile». Sebbene si trattasse di spettacoli di danza teatrale di indubbio successo, Liszt, nel quinto articolo di De la situation des artistes et de leur condition dans la société, pubblicato nella Gazette Musicale de Paris nell’agosto dello stesso anno, così si esprime: «[…] quelli che hanno la sfortuna di prendere sul serio l’arte, che sono gelosi della sua dignità, quelli che vorrebbero vederla crescere in continuazione, progredire e superare ciò che è commerciale […] saranno costretti ad applaudire in continuazione la costante riproposizione di certe opere universalmente riconosciute come detestabili, e che non si sostengono se non grazie all’aiuto di mademoiselle Taglioni o di mademoiselle Elssler». Anche gli spettacoli di danza proposti al Teatro alla Scala di Milano in quegli stessi anni mossero il nostro compositore a pubblica disapprovazione. Sulla Revue et Gazette Musicale de Paris del 25 marzo 1838, Liszt lancia i suoi strali contro il balletto pantomimico di Galzerani su musica di Mussi, Ali Pascià di Giannina: «Per tutto questo inverno Ali Pascià ha fatto regolarmente saltare la fortezza di Giannina, dopo una pantomima di un’ora e mezza tanto noiosa quanto assurda: un grazioso passo delle signorine Varin ed Elssler spezzava soltanto la spaventosa monotonia di questo rebus gestuale». I numeri, però, rilevano inequivocabilmente che il pubblico dei ballettomani italiani doveva apprezzare la coreografia, visto che Ali Pascià di Giannina venne replicato 42 volte in quell’anno e ben 61 volte nel 1840.
Ma quella di Liszt era un’opinione che coglieva effettivamente nel segno. I mali che affliggevano il balletto di quella prima metà dell’Ottocento erano conseguenza, da una parte, di una scarsa considerazione della musica da parte dei coreografi e, dall’altra, del ruolo assoluto sulle scene detenuto dalle prime ballerine. Si dovrà aspettare, allora, la fervida collaborazione del coreografo Petipa con Čajkovskij per assistere alla riforma del balletto romantico. A San Pietroburgo, con la celebre triade Il lago dei cigni, La bella addormentata, Schiaccianoci, il genere della musica per balletto viene riabilitato in tutto il suo valore, e l’impianto drammaturgico della coreografia si arricchisce di vari ruoli danzati intorno al personaggio della prima ballerina. Ma, a questo punto, Liszt aveva ormai consegnato se stesso e la sua opera all’eternità.
Con il transito al nuovo secolo e la svolta che il passaggio porta con sé, i termini del rapporto tra danza e musica cominciano a modificarsi. Se Čajkovskij, dimostrando che una musica di qualità conferiva pregio all’intera opera coreografica, aveva scardinato il pregiudizio storico secondo cui quella per balletto doveva essere solo musica di supporto ritmico e di scenario uditivo, e pertanto facilmente sostituibile, i coreografi novecenteschi arrivano a rivolgersi alla musica come fonte stessa di ispirazione o di invenzione di nuove poetiche. Allora, quel repertorio lisztiano, che aveva guardato all’arte coreutica solo in riferimento a ritmi e a forme quali possibilità compositive, inizia a diffondersi sulle scene della danza partecipando direttamente al rinnovamento coreografico novecentesco. Inizia così la storia dell’incontro tra la musica di Liszt e la danza, una storia, appunto, postuma ma capace di offrire un originale contributo così al mondo della danza come agli interessi lisztiani.
Infatti, gli studi sulla ricezione novecentesca delle opere lisztiane hanno da attingere proprio alla storia della danza, perché ad alcuni coreografi va il merito di aver diffuso parte della musica dell’ungherese in luoghi e tempi in cui essa non era del tutto conosciuta. E qui si accennerà solo a qualche caso che non esaurisce in nessun modo la questione, ma piuttosto la vuole aprire. Isadora Duncan, per esempio, nei suoi fascinosi recital senza corsetti, scarpette da punta, né tutù, amava proporre i brani pianistici Funérailles, Bénédiction de Dieu dans la solitude, e la Leggenda di St. François d’Assise: la prédication aux oiseaux. La pioniera del modernismo in danza aveva composto su di essi coreografie solistiche che sentiva «permeate di preghiera, di dolcezza e di luce». Invece, nella prima metà del Novecento è proprio il biografo lisztiano Sacheverell Sitwell a registrare l’effetto che Frederick Ashton, con alcune sue coreografie, produsse sul numeroso pubblico di ballettomani inglesi. Come scrive Sitwell nell’edizione del 1967 della sua celebre biografia, la Dante Sonata, usata nella coreografia omonima, e il Galop in la minore, usato in Apparitions, sono brani che a Londra riemersero dall’ingiusto oblio solo quando andarono in scena. Nel caso di Radici, poi, è l’uomo Liszt a salire con le sue musiche sul palcoscenico della danza teatrale. Realizzato in Italia da Liliana Cosi e Marinel Stefanescu nel 1990, il balletto del genere neoromantico svolge in modi simbolici e idealizzati la vita e l’universo esistenziale di Liszt, sulle note delle Rapsodie ungheresi n. 2, 4 e 5, e della Fantasie über ungariche Volksmelodien. In Dal Faust di Goethe, balletto realizzato nel 2006 da Luciano Cannito e Beppe Menegatti, attraverso la danza, invece, rivive quel mito faustiano che aveva acceso e nutrito l’ispirazione di molta musica lisztiana. La coreografia, qui, si appropria della poderosa vicenda della tragedia goethiana nel modo sceniconarrativo di impianto accademico, e restituisce evidenza gestuale alle composizioni che Liszt stesso aveva riferito a Faust.
Anche gli studi lisztiani di teoria e analisi musicale hanno da attingere alla storia della danza. L’esito di un approfondimento analitico e multidisciplinare ha evidenziato due casi straordinari. Si tratta di Dante Sonata e di Marguerite and Armand, coreografie di Frederick Ashton realizzate rispettivamente nel 1940 e nel 1963 a Londra. Le interpretazioni coreografiche ashtoniane si fondano su una considerazione precisa della musica e un’attenzione rigorosamente analitica alla corrispondenza puntuale tra movimento coreografico e musica. Allora, in Dante Sonata, Ashton crea un vocabolario gestuale astratto e simbolico corrispondente all’uso simbolico che Liszt fa del vocabolario musicale nella sua Dante Sonata; e con esso attribuisce un senso allo spartito lisztiano che mette in connessione la forma adottata da Liszt con le due fonti letterarie all’origine dell’ispirazione lisztiana (la Divina Commedia di Dante e la lirica Après une lecture de Dante di Hugo). L’analisi delle relazioni intertestuali attraverso l’interpretazione coreografica della Dante Sonata ci apre così le porte dell’officina creativa di Liszt, conducendoci là dove l’allegoria medievale del percorso ascensionale cristiano si trasforma in metafora del cammino inquieto del soggetto romantico, e là dove la forma sonata si rinnova dal suo stesso interno. Con Marguerite and Armand, invece, la Sonata in si minore si presta a svolgere, attraverso il movimento coreografico in stile neoclassico, la storia della Signora delle Camelie di Dumas figlio trattata in forma di evocazione poetica. Il capolavoro pianistico lisztiano, qui, risulta capace, con i suoi aspetti formali solamente, di contenere la narrazione di un forte sentire che la danza di Marguerite and Armand si incarica di rendere evidente. Ecco allora che con l’interpretazione ashtoniana della Sonata in si minore ci conferma come Liszt abbia raggiunto quell’ideale di musica strumentale “poetica” più ancora della poesia stessa, cui aspiravano le sue sperimentazioni tecniche compositive e la sua estetica musicale.
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