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L’opera di Bellini in scena al Regio diretta da Michele Mariotti
di Attilio Piovano
U na «Norma» davvero in grande stile, quella ammirata mercoledì 16 maggio, al Regio di Torino: felice ritorno (a distanza di dieci anni) del capolavoro belliniano, con la direzione di lusso del trentatreenne pesarese ed affermato fuoriclasse Michele Mariotti, attuale direttore principale al Comunale di Bologna, che per la prima volta ha deciso di confrontarsi con la superba partitura. L’allestimento – in coproduzione con Opera Scene di Roma – reca la firma di Alberto Fassini (regia ora ripresa da Vittorio Borrelli) e si avvale delle scene e dei costumi dalle nette cromie di William Orlandi. Un allestimento per nulla ‘invecchiato’: si rivela tuttora di forte impatto visivo, con belle scene costituite da pietrose quinte mobili, realistiche ed allusive al tempo stesso, ma non oleografiche, sovrastate da una luna incredibilmente suggestiva a campeggiare su panorami spaziosi, tra le notturne brume d’un bosco; una sorta di imponente dolmen domina il centro scena, quale simbolo della cupa storia di contrasto tra ragione e sentimenti (valide luci di Andrea Anfossi).
Opera complessa, sotto il profilo drammaturgico, «Norma» è partitura di soverchia bellezza, dai ricchi contenuti musicali che Mariotti ha posto in luce con incredibile naturalezza. Una direzione, la sua, che ha convinto fin dai primi istanti, vale a dire fin dalla corposa Sinfonia (basterebbe questa pagina a smentire il becero e falso luogo comune proclamato da chi ancora, in malafede, si ostina a pensare che Bellini non sapesse strumentare), affrontata con tempi giusti, piglio energico e teso, a preconizzare il clima di inesorabile tragedia. Nel corso dell’opera Mariotti ha governato con mano salda, a partire dall’emozionante coro d’apertura Ite sul colle o Druidi, ma soprattutto ha saputo ibridare la partitura, e non solo arie e cabalette, luoghi topici, bensì anche i molti recitativi accompagnati (perché di questo si tratta, ancorché la terminologia dell’epoca preferisca tempo d’attacco, transizione o tempo di mezzo) con una quantità notevole di gradazioni coloristiche e dinamiche: perfetta l’intesa con l’orchestra, le voci soliste, il coro e con il palcoscenico. Non un solo istante di stagnazione, il senso dell’incalzare del fato sempre presente, fin dall’iniziale coro e, nel contempo, il giusto rilievo ai momenti introspettivi: una perfetta aderenza ai moti dell’animo, specie in quei passi ritmicamente turbolenti che paiono già anticipare certi passaggi verdiani, per dire, di un Rigoletto. Insomma una direzione di gran classe che conferma Mariotti musicista a tutto campo, nonché interprete colto e consapevole, attento ad evidenziare le parti più romanticamente contrastate, lasciando spazio a quelle espansioni liriche che di Bellini sono la cifra emblematica.
Opera complessa si diceva, risale al 1831, ancorché fondata su un libretto che, a rileggerlo oggi, rivela il segno del tempo: e dire che reca la firma del sommo Felice Romani, ciò nonostante taluni versi appaiono irrimediabilmente ‘datati’ nella loro freddezza letteraria. E gli esempi potrebbero esser molti: uno fra tutti, «Vanne e li cela entrambi. Oltre l’usato io tremo d’abbracciarli» [i figli], detto da Norma alla confidente. Libretto peraltro funzionale alla vicenda, squisitamente romantica, con quell’ambientazione nordica e notturna, il senso immanente del mistero insito nella natura, il conflitto di un popolo intero riverberato nel contempo dal dramma della passione e della gelosia, dove c’è spazio per la generosità e il senso del dovere, la lungimiranza, ma altresì per la sete di vendetta ed il desiderio di morte: un mix di alti ideali e meschinità umane, religiosità panica e tradimento, purezza e menzogna e redenzione finale dove amore e morte (eros e thanatos) trovano finalmente modo di comporsi catarticamente nell’inesorabile ed eterno abbraccio.
Vicenda che necessità di una grande interprete. Non a caso dalla sera della ottocentesca première scaligera, con una Giuditta Pasta al culmine della carriera, in poco meno di due secoli, l’opera ha visto trionfare schiere di voci eccelse; per dire, oggi sono ancora in molti ad impostare il giudizio critico su improbabili confronti con l’indimenticabile Maria Callas che della «Norma» fu eccellente interprete, rischiando però in tal modo di penalizzare qualsiasi pur ottima protagonista in tale ruolo considerato, non a torto, tra i più ardui ed impervi dell’intera letteratura melodrammatica e belcantistica: definito enciclopedico dall’autore stesso, per l’alto concentrato di virtuosismo e profondità psicologica richiesta. A Torino, dopo la rinuncia (per ragioni di salute) della prevista Norma Fantini dal nome… a dir poco impeccabile per tale parte, nel ruolo dell’eroina e sacerdotessa druidica divenuta empia e sacrilega per amore, ha primeggiato il soprano greco Dimitra Theoddossiou, nuovamente al Regio dopo la «Lucrezia Borgia» del 2008. Dopo il lungo monologo della scena IV, affrontato non senza qualche iniziale incertezza, in Casta diva, vero luogo emblematico, col suo lirismo onirico ed effusivo, ha regalato accenti di innegabile emozione: pianissimi delicati e bei suoni filati. Ancor più il pathos è andato infittendosi nella parte finale, laddove sui sentimenti di vendetta prevalgono l’amore e il senso del sacrificio. Un’ottima prova, nel complesso, quella fornita dalla Theoddossiou, vocalmente convincente e bene nella parte, nonostante alcuni passaggi di registro non sempre omogenei e qualche oggettiva asprezza negli acuti (ciò detto per onestà intellettuale, a dispetto di una claque clamorosamente imbarazzante con esagerati strepiti a scena aperta); le difetta inoltre quel tanto di magnetismo in più per rendere memorabile la sua performance. A onore del vero il riscatto più completo è stato in Teneri figli, scena madre di grande intensità e pregnanza.
Molto applaudito nel ruolo dell’innamorata Adalgisa, in bilico tra sentimenti contrastanti, il mezzosoprano statunitense Kate Aldrich (a nostro giudizio, la vera star di questo allestimento, ripagata da sonori e del tutto meritati applausi): voce corposa ove occorre, ben timbrata, ma anche dolce e delicata per i passi più accorati; commovente per pathos e intensità è parso il duetto Sola furtiva al tempio co un’ottima presenza scenica. Il tenore Marco Berti, nel ruolo del protervo Pollione, proconsole nelle Gallie, non ha convinto del tutto, tenore aitante e vocalmente possente, ma che ha ceduto in alcune ineleganze e qualche imprecisione ritmica. Ieratico e con un buon aplomb il basso Giacomo Prestia nel ruolo di Oroveso, l’anziano capo dei Druidi, austero personaggio pubblico e al tempo stesso padre tenero: vocalmente credibile, pur con qualche eccesso di vibrato. Superlativo il coro (il culmine drammatico in Guerra, Guerra) ben istruito da Claudio Fenoglio. Un poco scialbe, ma corrette, le voci dei comprimari, il tenore Gianluca Floris (Flavio, amico di Pollione) ed il mezzosoprano Rachel Hauge (Clotilde, confidente di Norma).
Ottima la regia: gioca su simmetrie (fin dalla calligrafica disposizione quasi scultorea o propriamente canoviana delle masse prima del rito) e movimenti compassati, a rendere la sacralità della trama: una trama, invero, oggi difficile da accettare dove sublime e luoghi comuni talora si sfiorano pericolosamente, come nel finale in cui Pollione sale al rogo accanto alla rea confessa Norma, dopo un risibile mutamento psicologico, ribaltone dei sentimenti del tutto inverosimile. Applausi convinti a tutto il cast e palesi punte di entusiasmo per il direttore Mariotti.
Undici complessivamente le recite destinate a protrarsi sino al prossimo 30 maggio, durante le quali si alterneranno nei ruoli solistici Maria Billeri (Norma), Aquiles Machado (Pollione), Enrico Iori (Oroveso) e Veronica Simeoni (Adalgisa).
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