
STRESAFESTIVAL
Strauss e Ravel, due visioni del concetto di danza. Ma anche il concerto per violino di Berg: solista Frank Peter Zimmermann
di Attilio Piovano
C’era molta comprensibile attesa la sera dello scorso 29 agosto a Stresa per il concerto della Gustav Mahler Jugendorchester diretta da Daniele Gatti. E le attese – ovviamente – non solo non sono andate deluse, bensì si è trattato di un successo quantomeno strepitoso per un’orchestra che si conferma tra le migliori in assoluto (e non solo tra quelle giovanili). Se poi a guidarla è un musicista di vaglia come Gatti, sensibile e comunicativo, colto ed affabile, preciso ed incisivo, ecco che la serata si trasforma in un vero e proprio godimento spirituale continuo, dalla prima nota al bis. Un’orchestra che suona con entusiasmo almeno pari alla disciplina, disvelando fin dai primi istanti un affiatamento a dir poco incredibile (frutto di un lavoro di concertazione puntuale e dettagliato); e che rotondità di suono, gli archi soprattutto, e che pulizia nei fiati e avanti elogiando. Se la perfezione assoluta esiste occorre ammettere che la Gustav Mahler Jugendorchester al momento attuale vi si approssima alquanto regalando emozioni indicibili.
Non mancano quei languori e quelle estenuazioni che denunciano in Ravel la nevrosi e la crisi dell’uomo moderno, quel vagare come rapsodiando, quel procedere con fare onirico
Il programma, poi, non era certo scontato. Di spicco in particolare, e di grande interesse, l’idea di accostare due ‘visioni’ del concetto di danza e di valzer viennese, in particolare, vale a dire quella di Strauss che nella «Suite orchestrale op. 59» dal «Rosenkavalier» rivela una mano felice per garbata ironia e leggerezza di tratto (ad onta degli spessori e delle densità di vari passaggi) e quella di Ravel che nella «Valse», celeberrimo poema coreografico improntato ad una eleganza smaccatamente francese, celebra l’epicedio di un’epoca intera, il definitivo (e tragico) collassare di un mondo dinanzi all’immane catastrofe della Prima Guerra Mondiale. Ed è questo aspetto che solitamente i direttori amano sottolineare, fin dall’esordio, esaltando quel borbottio confuso, come un procedere misterioso dalle soglie del rumore, un soffio impercettibile e cupo dal quale, come per incanto, la musica ed il ritmo di valzer sorgono quasi emergendo dal nulla. Non che manchi il senso della tragicità nella personale (e pur fascinosa) lettura di Gatti, e lo si è compreso fin dalle prime misure, già dinamicamente significative; Gatti evita pur tuttavia quelle sfuggenti ed alonate fumisterie nelle quali altri invece indugiano, a dire il vero forse fin troppo, puntando dritto sulla chiarezza delle linee melodiche e, più ancora, sull’icastica squadratura del ritmo che della «Valse» costituisce il nerbo. E non ha timore di raggiungere ben presto l’apice di un più che fortissimo, non teme di calare subito l’asso di un effettistico affondo e dà corpo a spessori e densità timbriche immani. Una visione nitida, la sua, entro la quale i repentini barbagli, le accensioni improvvise vanno ibridandosi di una esuberanza e di una scioltezza senza eguali alla quale la Jugend risponde docile ed agile come il motore di un’auto che ha potenza da vendere e prende giri rapidissimamente. Ciò nonostante non mancano quei languori e quelle estenuazioni che denunciano in Ravel la nevrosi e la crisi dell’uomo moderno, quel vagare come rapsodiando, quel procedere con fare onirico, sicché ritmi e brandelli di valzer vanno coagulandosi come per caso, mentre si sa che al contrario tutto è calcolato e sorvegliatissimo. Gatti mette per così dire un poco in parentesi tale aspetto privilegiando il lato solare, aprico (che pure è ben presente nella partitura raveliana dalle poderose ondate sonore), lo sfolgorio dei timbri, la trascinante verve che tocca il culmine nelle ultime misure, rapinose ed inesorabili (ancor più che nel celebrato «Boléro») e lo schianto finale si abbatte improvviso troncando con gesto netto ogni residuo di illusoria speranza. Una visione personale e particolare quella di Gatti, più incline ad evidenziare per l’appunto i tratti incisivi e le linee guida che non le mezze tinte, le zone assorte. E conseguentemente il suono orchestrale prescelto è lontano dal cliché francese, ovvero per converso, risulta molto tedesco. E allora ecco che nella suite straussiana l’ottimismo aproblematico e la sgargiante, spesso aitante, veste timbrica hanno avuto un rilievo davvero singolare e la partitura è emersa in tutta la sua bellezza talora fin sfrontata. Molto apprezzabili poi i dettagli sui quali Gatti ha indugiato qua e là denunciando – come una vera e propria lezione di analisi e di stile – quei sottili legami che uniscono Strauss al pur dissimile Mahler.

Tutto sul versante austro-tedesco il restante programma che si era inaugurato con una toccante lettura del wagneriano «Preludio» dal III atto del «Parsifal» e immancabile «Incantesimo del Venerdì Santo», ammirevoli per bellezza di suono e profonda intensità espressiva, grazie alla pasta corposa e morbidamente fluida degli archi sulla quale gli interventi dei fiati vanno distillandosi con ammirevole delicatezza. Da sottolineare poi l’attento rilievo conferito alla tramatura contrappuntistica impreziosita di dettagli e superbo l’emergere solenne del celebre tema coralistico, icastico e ieratico. E ancora Wagner come bis, «Preludio» dal III atto dei «Meistersingers» reso con partecipe emozione.
Al centro serata – diretta da Gatti per intero a memoria – il «Concerto per violino e orchestra» di Berg dedicato – come noto – ‘alla memoria di un angelo’ (la figlia di Alma Mahler e Gropius morta in tenera età), capolavoro di lirismo, con quelle atmosfere algide e pur teneramente affettuose che il fuoriclasse Frank Peter Zimmermann (suona anch’egli a memoria, e non è cosa da poco trattandosi di tale partitura e non certo di un Concerto di Mozart) ha centellinato con suono bellissimo. Zimmermann emerge nitido entro i passi più segnatamente cameristici e rarefatti integrandosi perfettamente nel tessuto orchestrale laddove si fa fitto. E quanto charme in quegli accenni trattenuti ad un passo di danza (ancora un valzer), come una soave e nostalgica lusinga, e quanto spleen nell’emergere stranito ed immateriale di un corale bachiano, posto a suggello di quest’opera sublime ed enigmatica. Anche qui occorre rilevare l’accuratissimo lavoro di concertazione posto in atto e che ha permesso di conferire il giusto peso ad ogni singola nota e così pure di lumeggiare dettagli anche minimi che diversamente rischiano di risultare come risucchiati entro la partitura. E la sorpresa di quel sollevarsi tellurico e quasi delirante, come un gesto di ribellione scatenata, contrapposta all’eterea delicatezza di molti passaggi affrontati da Zimmermann con leggerezza pari al virtuosismo sfoderato nei passi rapidi. E quel conflagrare dell’orchestra, quasi anticipazione di un vero e proprio cluster, che raramente è accaduto di ascoltare circonfuso di tanto pathos. Applausi protratti e come bis – annunciato dallo stesso Zimmermann – una serie di variazioni su tema di Haydn: e verosimilmente (salvo errori) si è trattato di Wieniawskij (n° 9 op.10 della sua nota «Ecole moderne» fondato appunto sul tema haydiniano poi divenuto Inno nazionale austriaco), col quale Zimmermann si è confermato solista dal virtuosismo eccellente.
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