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Omer Meir Wellber e Sergej Krylov in concerto al Massimo di Palermo. Momenti di grande intensità ma anche un paio di cose che…
di Monika Prusak
C on il Prélude à l’après-midi d’un faune di Claude Debussy è iniziato il concerto del 30 settembre scorso, che ha visto salire sul palcoscenico del Teatro Massimo di Palermo il giovane direttore israeliano Omer Meir Wellber e il violinista russo Sergej Krylov, ospite frequente del capoluogo siciliano. Un’interpretazione pallida e senza verve del Prélude, che riusciva a svegliarsi soltanto nei momenti di forte dell’intero organico, ha lasciato invana la speranza di uno sviluppo timbrico di questa eccellente pagina del fin de siécle francese. È rimasto poco entusiasta anche il pubblico, che non ha avuto la possibilità di apprezzare realmente la bellezza delle armonie e degli intrecci timbrici debussiani. L’atmosfera si è rinvigorita nel I Concerto per violino e orchestra in Mi bemolle maggiore Op. 6 di Niccolò Paganini, che però non rappresenta in sé una prova compositiva particolarmente raffinata, bensì uno “scontro”, non del tutto comprensibile, tra la scrittura orchestrale rossiniana e la scrittura per violino tipica di Paganini. Krylov si esprime con un suono particolarmente limpido e piacevole, supportato da una ferma intonazione che si fa notare soprattutto nei numerosi armonici e nel registro grave, ma a tratti irrita per gli eccessivi portamenti e abbellimenti dal gusto klezmer. Il pubblico applaude comunque a lungo e il violinista ritorna per un bis: il Capriccio n. 13 di Paganini.
La seconda parte del concerto fa finalmente apprezzare il giovane Wellber che, nelle pagine di Till Eulenspiegels lustige Streiche Op. 28 di Richard Strauss, si sente veramente a suo agio, proponendo agli ascoltatori un’esecuzione matura sia dal punto di vista emotivo che musicale. Il gesto del direttore si irrobustisce, diventa più ampio, il suo coinvolgimento contagia il pubblico e, prima di tutto, l’organico, che risponde con un suono corposo, quasi materializzato. Tuttavia Wellber risulta spesso troppo metronomico, rimanendo sempre legato alla gestualità schematica, per cui la sua interpretazione non riesce a sollevarsi, non giunge a un culmine, come se tenesse la musica sotto un eccessivo controllo. Il concerto si conclude con il Bolero di Maurice Ravel, una delle pagine più famose, ma anche una dura prova di pazienza e resistenza per l’organico orchestrale. Il lungo crescendo, che ha nella composizione il ruolo fondamentale, viene costruito da Wellber in maniera intelligente e sistematica, ciò nonostante arriva all’apice un po’ precocemente, mettendo a rischio i momenti finali di maggiore intensità e la tensione generale dell’esecuzione. Il direttore si rilassa notevolmente in un movimento quasi danzante, permettendo anche agli strumenti solisti di eseguire le parti con maggiore scioltezza. Notevoli i fiati che, con qualche piccola imprecisione, hanno contribuito alla buona resa dell’insieme, e le percussioni, che sono riuscite a compiere il crescendo finale quando l’orchestra sembrava aver già toccato il limite delle sue possibilità dinamiche.
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