Recensione • Juraj Valčuha ha diretto ieri a Torino “Ein deutsches Requiem” alla guida dell’orchestra italiana e del RIAS Kammerchor Berlin. Stasera replica, anche sul web
di Attilio Piovano
[Egrave] sempre con grande emozione che ci si accosta al brahmsiano Deutsches Requiem, capolavoro di intimismo, più ancora, opera impregnata di altissima sacralità, pur non essendo pagina liturgica in senso stretto, dacché – si sa – non si avvale del testo canonico del rito cattolico, utilizzando bensì testi dal Vecchio e dal Nuovo Testamento (San Paolo, i Libri Sapienziali e l’Apocalisse), significativamente in lingua tedesca, come del resto nella tradizione luterana che in Bach aveva avuto un sommo interprete. Un Requiem impastato di tenerissima humanitas, verosimilmente sollecitato dall’esperienza dolorosa della morte della madre del musicista amburghese. Eppure non sono il dolore e, men che meno, il terrore della morte a prevalere nel sublime capolavoro, non il timore del Giudizio divino, non il senso di colpa del peccatore. Nessun tremore (come in certi passi del mozartiano Requiem) e nessuna effettistica teatralità, come nella verdiana Messa. Colori per lo più ambrati e luci soffuse, una tenerezza di fondo e una pacificante dolcezza dominano e predominano nella partitura brahmsiana di incredibile bellezza, costellata di preziosità timbriche, di delizie armoniche ed ogni volta che lo riascolti, in sala da concerto (come pure nella raccolta atmosfera di una personale audizione su cd), ti si aprono orizzonti sempre nuovi. E mille dettagli, che pure sono noti ed arcinoti, se di esecuzione di livello si tratta, balzano dinanzi agli occhi come per incanto, e ti seducono con la freschezza della loro immediatezza per così dire sovratemporale. E allora che bella esperienza, ieri sera, 1° novembre, festività di Ognissanti, dunque per una volta (lodevolmente) in sintonia con i tempi della liturgia, e per chi ne ha consuetudine è un tassello in più (beninteso nel massimo rispetto di chi ne è lontano), riascoltare ancora una volta il capolavoro brahmsiano a Torino, in una interpretazione di lusso per la stagione dell’OSN Rai, la replica stasera, 2 novembre, con diretta radiofonica su Radio3 nell’ambito di Radio3 Suite e in streaming.
Sul podio Juraj Valčuha, guida salda e precise idee interpretative e, ad affiancare l’Orchestra Rai, il RIAS Kammerchor Berlin (maestro del coro Hans-Christoph Rademann), rivelatosi ensemble di caratura davvero eccezionale, e si sa quanto il coro sia protagonista nella pagina. Sin dall’esordio, s’intende, col superbo «Selig Sind» che Valčuha ha affrontato molto opportunamente con tono sommesso, colori attenuati e luci soffuse. E si capisce subito che Fauré, pur lontanissimo dall’universo brahmsiano (meno di quanto si creda a dire il vero) proprio da qui è partito per il suo (stupendo e mirifico) Requiem. La conferma la si ha in chiusura della pagina di Brahms alla quale certo il musicista della Pénélope guardava con deferente ammirazione (e si sente). Pochissima enfasi nell’impennata di «Kommen mit Freuden» che allude soavemente alla gioia con un impercettibile accenno a un ritmo quasi di danza. E subito il RIAS Kammerchor si rivela ottimo per chiarezza di emissione, capace di sfumature delicatissime, ancor più emozionanti nei brevi interventi a cappella. Sicché non a caso a fine serata, a giudicare dagli applausi, i maggiori e più partecipi consensi del pubblico si rivolgono proprio all’indirizzo del coro (oltre che di direttore, orchestra e dei due solisti).
Poi il toccante «Denn alles Fleisch» – vero nucleo emotivo centrale dal quale procede l’intero Deutsches Requiem – con l’insistente ritmo trocaico, pur scevro di minaccia alcuna, ma austero sì, ed il pulsare inesorabile del timpano circonfuso di mezze tinte. Ma ecco il prodigio di un viraggio inatteso, con la freschezza mottettistica di «So seid» quindi lo sfolgorio degli ottoni in «Aber des Herrn», il preciso e nitido contrappunto, sicché la riapparizione del ritmo pulsante non ha nulla di livido o di tremebondo e si carica di una limpidità davvero unica, come metamorfizzato. Tutti particolari che Valčuha coglie benissimo, come accarezzando l’Orchestra dai timbri agglutinati, ma granitica, ove occorre, in buona forma, salvo occasionali e minime sbavature, e il coro risponde a meraviglia con la pasta docile di una fusione incredibile, quasi un organo dalla fonica romantica e dai registri violeggianti. Il coro, possente e poderoso, è ancora protagonista assoluto nella terza sezione (entro la quale il baritono James Rutherford canta pur correttamente, ma senza regalare troppe emozioni e con un vibrato un poco fuori luogo, talora coperto dall’orchestra). Laddove la doppia fuga corale dai timbri poderosi è impressionante per bellezza, e che brividi in quel lungo, solenne e trionfante pedale, molto bachiano, fatto precedere da passi di inaudita dolcezza e si sprigiona, comme il faut, un immane senso di drammaticità. Valčuha mette poi correttamente a fuoco, per converso, il tono arcadico e affettuoso della più contemplativa quarta sezione («Wie lieblich»), dalla ialina trasparenza strumentale.
In «Ihr habt» fa la sua comparsa il soprano e si tratta dell’ottima Julia Kleiter, alla sua prima apparizione in Rai: voce ben timbrata e ben udibile, eleganza, appropriatezza stilistica e delicatezza di tratto che ben si inserisce nella leggera e trasparente tramatura timbrica del passo. Mentre invece il baritono, che già aveva destato perplessità nell’Addio di Wotan, in occasione del concerto inaugurale, non risparmia qualche ineleganza e qualche eccesso entro la sesta sezione. Sezione che sempre affascina per quel “galleggiare”, quell’ondeggiare, ritmico e armonico, che pare il corrispettivo delle immagini testuali, sostenuto da un vero e proprio passeggiato neobarocco col vibrante pizzicato degli archi. Con l’evocazione testuale delle trombe (o più propriamente del trombone, Posaune, nella versione luterana) emerge tutta l’incandescenza timbrica di uno dei punti più sfolgoranti del Requiem tedesco, interpuntato dal baluginio dei validi ottoni Rai, intersecato dalle svettanti figurazioni degli agili archi. Poi la cartesiana Fuga, partita lievemente appannata per poi procedere spedita, icastica ed incisiva, quasi festosa. Infine l’ultima, commovente sezione, dove le luci si attenuano, chiudendo magistralmente il cerchio con l’esordio, a ribadire quel senso di pacata serenità che del capolavoro del maestro amburghese è la vera e propria cifra; e con le liquescenti figure delle arpe il Deutsches Requiem riguadagna il silenzio arcano dal quale aveva preso le mosse. E per fortuna anche il pubblico per una volta riesce a trattenersi (oltre che a trattenere tossi e scatarramenti vari), per poi applaudire con vigore nell’ordine il superlativo coro, orchestra e direttore e solisti.
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