Opera • La regìa di Robert Carsen ambienta l’ultima opera di Verdi in un lussuoso Hotel. Successo unanime e caloroso alla Scala per l’ottima compagnia di canto e la direzione di Daniel Harding
di Luca Chierici
L‘attesa nuova coproduzione di Falstaff realizzata tra gli altri con il Covent Garden e la Canadian Opera Company di Toronto è approdata finalmente alla Scala l’altra sera con un successo unanime e molto caloroso. Bella serata con un’ottima compagnia di canto guidata da un entusiasta Daniel Harding, coloratissime scene di Paul Steinberg, sgargianti costumi di Brigitte Reiffenstuel, indovinata regia di quel Robert Carsen che tuttavia aveva messo in scena il Don Giovanni del 7 dicembre 2011 con inventiva ben più arguta. Carsen ha guardato al Falstaff verdiano con l’occhio dell’intellettuale anglosassone che ben conosce la tradizione interpretativa dei testi originali di Shakespeare e ne ha sottolineato certe peculiarità a noi poco conosciute come la problematica del conflitto tra upper e middle class, o ne ha riveduto il lato struggente e patetico proprio della figura del protagonista, del resto ben presente anche nel libretto di Boito e nella musica di Verdi. Ma per quanto il lavoro di Carsen sia stato coscienzioso fin nel minimo dettaglio, non era facile mettere mano a un capolavoro di teatro che dice già tutto quello che si può dire rispettando il raffinatissimo testo di Boito e il ritmo inflessibile che ad esso contribuisce a imporre la musica di un compositore giunto a un livello di ispirazione e di saggezza neppure commentabili.
Carsen ha ambientato i fatti negli anni Cinquanta, invitando lo spettatore con grande naturalezza a immergersi nelle boiseries che fanno da cornice a un lussuoso Hotel all’interno del quale si svolge la vicenda, passando da camere da letto a saloni di lettura, sale da pranzo e così via. A spezzare l’ambientazione ci pensa nella parte seconda dell’atto primo una splendida e coloratissima cucina anni Cinquanta (più vicina a quelle che si vedevano nelle riviste americane d’epoca) e ovviamente la scena della foresta che è dominata da un appariscente cielo stellato (male stellato, mettete almeno delle costellazioni riconoscibili e non delle luci a caso!) e si trasforma poi in una sala da ricevimento con una grande tavolata e lampadari luccicanti. I personaggi risentono in maniera positiva di questa trasformazione: Falstaff non è più il solito panciuto con i capelli alla Sor Pampurio ma un raffinato Sir che sa il fatto suo e il cui “fascino personal”, anche se si perde nel passato, è ancora tutto sommato credibile. Pistola e Bardolfo non sono più i due sciatti servitori che parlano-cantano come vecchi avvinazzati ma diventano quasi due gentlemen abituati a frequentare la società che conta, il paggio è un elegantissimo boy d’hotel e forse quello messo peggio è il povero Fenton, relegato al ruolo di semplice cameriere.
Bellissimi i costumi maschili, un trionfo di tessuti che di solito si ammirano nei più bei negozi del centro di Londra (e di Milano), divertentissimi quelli femminili delle comari, e poi avanti con tutta una logica trasposizione di particolari a cominciare dal “sacco di monete” che diviene una valigetta piena di banknotes e via dicendo. Intuizione degna di Carsen è certamente il “colloquio” tra Falstaff e un cavallo (vero) che avviene nel primo quadro dell’atto terzo, scena nella quale il cavallo medesimo più che ascoltare i bofonchiamenti del protagonista è occupato a mangiare i ciuffi di biada appesi alla onnipresente boiserie. Ma la regia non è sempre ricca di novità e a volte anzi cade nel ridicolo proprio perché rinnova dei momenti tipici del “vecchio Falstaff”, come la gag dell’uscita di Falstaff e Ford dalla porticina o lo spruzzo d’acqua che segue alla caduta della cesta nel Tamigi e soprattutto l’abbondanza di copricapi a forma di testa d’alce che si vedono nella seconda parte del terzo atto. Una contaminazione col vecchio, ma col vecchio se vogliamo peggiore, quello che fa ridere il pubblico che il Falstaff lo vede per la prima volta. Per non parlare dell’accensione graduale delle luci in sala durante la fuga finale, espediente ben trovato ai tempi di Strehler, ma di cui oggi possiamo fare tranquillamente a meno.
Ora, che dal punto di vista scenico questo non sia il Falstaff cui avevano pensato Verdi e Boito mi sembra più che ovvio. Ma come la mettiamo con la musica? Nella lettura di Harding si colgono tanti dettagli interessanti (ad esempio la velocità moderata con la quale viene attaccata la fuga finale, che permette di ascoltare tutte o quasi tutte le voci e molti interventi strumentali che di solito rimangono soffocati) ma manca del tutto il ritmo interno della partitura verdiana e il peso che andrebbe dato a ogni singola parola. E questi sono ingredienti del Falstaff ai quali non possiamo rinunciare. Non si vuole qui ripercorrere tutta una serie di esempi che hanno così tanto influito sulla nostra conoscenza dell’opera e che culminano nelle registrazioni di Toscanini, De Sabata e Bernstein, su quelle prove di Toscanini e Valdengo dove si ascoltano le famose sfuriate magari relative al modo di cantare due, dicasi due parole («quel tànghero!»). Ma anche in una lettura moderna di quest’opera straordinaria non si può trasformare la meravigliosa alchimia tra suono e parola strenuamente voluta da Verdi e Boito in una recitazione lineare che toglie gran parte del significato a ciò che si ascolta. E non si può a dire il vero rinunciare del tutto neanche alle storpiature che abbondavano un tempo nella caratterizzazione dei già citati Bardolfo e Pistola o del Dottor Cajus. Del resto sarebbe come pretendere che Gianni Schicchi imitasse la voce di Buoso Donati con uno stile da impeccabile annunciatore televisivo. L’impostazione di Harding ha condizionato evidentemente anche la compagnia di canto, che ha dimostrato almeno una cosa, cioè di non avere il coraggio di difendere le proprie posizioni di interpreti di fronte alle richieste (o alla mancanza di richieste?) del direttore. Daniela Barcellona è forse stata l’unica protagonista che ha saputo mediare tra il nuovo corso e le caratteristiche tradizionali della sua riuscitissima Quickly. Lo stesso Maestri, che probabilmente alla “prima” non si trovava nelle migliori condizioni di salute, non è stato in grado di imporsi più di tanto. Più convincente era il Ford di Capitanucci e di Carmen Giannatasio si è notato soprattutto la disinvoltura scenica, mentre non più che corretti ci sono sembrati Demuro e la Lungu nei ruoli dei giovanissimi amanti, che in mancaza del paravento “benedetto” si sono dovuti accontentare di amoreggiare nascosti da una semplice tovaglia a quadretti.
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