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Concerti • Esuberante nelle gestualità e vocalità, forte appeal visivo, il tenore ha proposto un programma che rappresenta il modello culturale dell’Italia nazional-popolare e strappacuore. Ma il Paese oggi va in tutt’altra direzione
di Luca Chierici
A spostare l’attenzione del pubblico competente verso il repertorio operistico e liederistico di area germanica (si vedano i recenti successi wagneriani alla Scala) contribuiscono non poco certi nostri cantanti veraci, che si ostinano a riproporre programmi desueti e tutti incentrati sulla melodia strappacuore. Se poi gli stessi cantanti vengono posti a confronto con i divi di un tempo, i Gigli o più recentemente i Carreras e i Pavarotti, che di certo repertorio erano comunque interpreti encomiabili e affascinanti, ecco che i paragoni risultano ancora più impietosi e fanno riconsiderare (in meglio) voci e attitudini al canto un tempo considerate solamente a livello di decotto programma televisivo. Claudio Villa era Jussi Björling se paragonato a quanto ci è toccato ascoltare l’altra sera nel massimo teatro italiano nel nome di una Operatic Pop che confonde l’interpretazione della cosiddetta musica d’arte con l’intrattenimento più consono a un tipo di serate benefiche che affollano i calendari degli studios televisivi d’oltreoceano.
Il tenore Vittorio Grigòlo aveva fatto ben sperare i melomani che lo avevano ascoltato agli esordi o i videospettatori che avevano salutato con gioia una Traviata anticonformista messa in scena alla stazione ferroviaria di Zurigo nel 2008. Ma le sue successive performance, culminate nel Rigoletto di quest’anno alla Scala (sul quale avevamo espresso molte riserve) tendevano purtroppo a sottolineare per il tenore aretino atteggiamenti censurabili, oltretutto non sostenuti da una vocalità immune da critiche. Non è sufficiente l’esuberanza gestuale e vocale e l’aspetto da sciupafemmine per creare un nuovo mito e la scelta di presentarsi l’altra sera alla Scala nel contesto della serie dei recital di canto non è certo stata per Grigòlo una mossa felice, coinvolgendo per di più un accompagnatore raffinato e sensibile come Scalera, partner di lusso che ci ha regalato in passato serate magnifiche in compagnia di grandissimi cantanti.
Già il programma non faceva presagire una scelta indirizzata verso contenuti particolarmente profondi, ma passi: abbiamo ascoltato Tosti, De Curtis e D’Annibale da tenori di primissimo piano e non staremo qui a lamentarci dell’impaginato della seconda parte di un elenco la cui sezione “classica” di apertura era rappresentata da alcune composizioni da camera di Bellini e da estratti dal Duca d’Alba di Donizetti, dal Corsaro di Verdi e dal Rossini della “Soirées musicales”.
Ma fin dall’inizio si è capito quali erano le armi messe in campo dal tenore, ossia l’iperespressività, l’inflessione singhiozzante, un’agire sul palcoscenico eccessivamente confidenziale, al limite della tracotanza. La disuniformità di emissione vocale (il falsetto o la mezza voce e le accentuazioni non scritte) prevaleva poi nei confronti di una emissione più lineare e conferiva spesso un sapore zuccheroso o sopra le righe ad ogni frase, indipendentemente dal significato del testo.
Quando si arriva al Duca d’Alba iniziano le entrate “teatrali” di Grigòlo in palcoscenico dopo l’introduzione pianistica, gettando lo scompiglio tra il pubblico: Scalera ha intercalato degli assolo alla tastiera tra un aria e l’altra? No, ecco che Vittorio compare, si agita, cammina da una parte all’altra, si rivolge spesso al pianista dirigendo la voce dalla parte opposta a quella del pubblico, rendendo quindi incomprensibile ciò che canta o mascherando difficoltà di sillabazione in Rossini. La geolocalizzazione di Grigòlo, come si direbbe in termini attuali, risulta assai problematica, mettiamo, per un fotografo che volesse cogliere delle istantanee più che doverose, vista la bella presenza del Divo.
Dopo una cavatina e cabaletta dal Corsaro di Verdi, forse il momento migliore della serata, e la scelta di romanze di Tosti, è tutto un crescendo di ammiccamenti verso la platea con tanto di commenti da parte di un personaggio oramai incontrollabile, che si inginocchia a ricevere gli applausi di quella parte del pubblico diciamo così di bocca buona, tira fuori dal cilindro boccioli di rosa (no, non glieli hanno gettati dal loggione) evoca Gigli, ricorda che il 7 Gennaio si festeggia San Luciano (martire?), si abbandona al ricordo del suo debutto alla Scala sotto la bacchetta di Muti, snòcciola tutta una serie di banalità nazional-popolari sull’Italia paese del sole e della mamma (ma si è accorto, Grigòlo, che il Paese sta per fortuna andando verso tutt’altre direzioni?) continuando a inanellare bis, da Amor ti vieta a O sole mio, attraverso Non ti scordar di me, Mamma e una poco felice incursione in quella Furtiva lagrima, che si riduce a pallida imitazione di tante gloriose interpretazioni da capogiro.
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L’Italia sta andando da tutta altra parte? Speriamo di si Sig. Chirici da tutta altra parte rispetto a dove va lei. Mai letto tanta pochezza in una volta sola. E per rimanere nel “popolare”, la falsitá “delle rose” (che chiunque fosse a teatro ha visto lanciare da una Signora di un palco, gaudente dopo aver visto Grigòlo raccoglierle) evidenzia, nella migliore delle ipotesi, una sua certa superficialitá, perché invece a pensare male é indicativa di qualcosa d’altro: ” non sono state lanciate dal Loggione”. Excusatio non petita. Si, speriamo l’Italia vada veramente da un’altra parte: con tanti talenti coraggiosi, contemporanei e generosi come Vittorio Grigólo e sempre meno “commentatori” ( mi scusi ma proprio non mi viene un termine diverso perché nel mio modo di intendere la Critica é tutta altra cosa!) faziosi come lei.