
Saggi • Conoscere la storia di popolo per capirne l’arte musicale? Il libro di Simonetta Chiappini ci conduce in un interessante viaggio nella “Passione e identità nazionale nel melodramma italiano dell’Ottocento”
di Ilaria Badino
Porta il titolo del nostalgico richiamo della dolce ma al contempo risoluta Aida all’amata terra natìa questo bel libro della musicologa toscana Simonetta Chiappini, che segue l’evolversi (e l’involversi) delle vicende socio-politiche italiane legate – o meglio, accompagnate e sospinte – dall’iter operistico nazionale a partire dall’illusorio triennio giacobino (1796-1799), prefigurazione se non vero e proprio primo tassello del Risorgimento durante il quale una serie di repubbliche, favorite dall’avvento napoleonico, sostituì le formazioni tradizionali, fino agli albori del Fascismo, in cui le manifestazioni più apertamente repubblicane vennero ovviamente epurate e gli spontanei aneliti patriottici riletti secondo contraffatte logiche d’esaltazione del re e del duce.

Scopriamo pagina per pagina con certa – ma neppure troppa – sorpresa che l’immagine dell’Italia quale «paese del bengodi gastronomico, del “dolce far niente” e dell’inettitudine civile» ma, soprattutto, della «“fisiologica” propensione alla musica vocale» era già ben scolpita nelle menti e negli scritti dei letterati d’ogni dove a partire dall’inizio del Settecento, quando Jonathan Swift si rallegrava per il trionfo che nel 1728 aveva arriso alla Beggar’s Opera dell’amico John Gay, per mezzo della quale si deploravano le convenzioni operistiche italiane dell’epoca, prima su tutte l’effeminatezza rappresentata dal pullulare in scena dei castrati. Dopo di lui, tuttavia in termini connotativamente più positivi, anche Charles Burney (critico musicale ante litteram con i suoi celebri appunti di viaggio), Johann Wolfgang Goethe, George Byron, Charles de Brosses e Stendhal riconoscevano al Belpaese il primato della melodia quale frutto di spontanee propensione alla passione di un popolo naïf ed atavica allergia al razionalistico costituirsi civile. Emblematico in tal senso è un passaggio dello scrittore di Grenoble, tratto da «Roma, Napoli e Firenze» del 1817 e fedelmente riportato dall’autrice quale incipit del paragrafo denominato, per l’appunto, «Effetto Stendhal»: “Solamente la musica vive in Italia, e altro non s’ha da fare in questo bel paese, che l’amore; gli altri godimenti dell’animo vi sono impediti; qui se si è cittadini si muore avvelenati di malinconia”. A ben pensarci, un’immagine poi non troppo lontana da quella più o meno stereotipata che all’estero si ha dell’Italia oggigiorno come sinonimo di pizza, mafia e mandolino; ancora Stendhal non a caso era bendisposto a chiudere un occhio sull’amoralità e, soprattutto, sull’efferatezza così naturali per l’animo italico, in quanto le considerava conseguenze deviate, ma pur sempre conseguenze, di una nazione animata da un’energia necessaria per realizzare grandi cose. Inettitudine nella vita civile e voluttà musicale erano le due principali ripercussioni che nascevano dal vuoto politico e sociale in cui aveva versato il nostro popolo, il quale per troppo tempo era stato schiavo di tirannidi politiche e religiose. Un sonno, riassume efficacemente la Chiappini, che era il risultato di «immaginazione, talento e cattivi governi; valori latenti e naturali in un paese senza leggi, senza giustizia, senza stato».
I primi concreti segnali di una possibilità per la rigenerazione nazionale attraverso il potere corroborante ed agglomerante della musica operistica apparvero nel Mosé in Egitto di Gioachino Rossini, un’esecuzione del quale è lo scenario del romanzo di Honoré de Balzac che ampiamente tratta questa tematica, ossia «Massimilla Doni». Il lavoro composto dal Cigno di Pesaro nel 1818, infatti, anticipa i melodrammi di popolo verdiani nel trattare una vicenda di riscatto nazionale e nell’attribuire forza d’individualità collettiva alla massa corale: la celebre preghiera «Dal tuo stellato soglio» è difatti rimasta patrimonio nozionistico di base – di quello insegnato già a partire dalle scuole elementari – fino a qualche decennio fa, quando la storia della musica era ancora considerata una materia degna d’attenzione e, per l’appunto, parte fondante della nostra storia patria.
E se in Donizetti le convenzioni sociali e gli obblighi famigliari potevano ancora generare effetti disgreganti quali la netta opposizione tra patrizi e plebei da un lato (come nel Marin Faliero, tanto amato da Mazzini) e la follia di molte sue eroine dall’altro, sotto il dominio incontrastato di un rio quanto beffardo destino, nelle prime opere di Giuseppe Verdi ad alto tasso di sentimento nazionale (Nabucco, 1842; I Lombardi alla prima crociata, 1843; La battaglia di Legnano, 1849) tali differenze venivano appianate nel nome del perseguimento di una libertà anelata come valore comune e messa sopra un piedistallo aldilà di qualsiasi faida. Per ciò che concerne il piano squisitamente vocale, abbandonata l’astrale quanto ambigua sublimazione degli affetti da parte dei castrati prima e dei contralti en travesti poi, si giunge all’affermazione di tipologie canore rispondenti ad esigenze di realismo sempre maggiori: si fa così strada il tenore romantico – che aveva trovato pionieri in artisti di rango quali Giovanni Battista Rubini e, soprattutto, Gilbert-Luis Duprez –, che dà note e corpo alle istanze eroiche del giovane innamorato. Ma era forse, ancor più di lui, il soprano (del resto, come aveva anticipato Madame De Staël in «Corinne ou l’Italie», l’Italia è femmina) ad essere la vera protagonista del melodramma risorgimentale, nonché più adeguata portatrice di valori quali l’ardimento pur nella castità, la persistenza pur nel martirio, che trovano una delle loro più elevate realizzazioni nelle intense parole e nello scatto ferino dell’altera Odabella di fronte al sanguinario Attila: «Santo di patria indefinito amor!/(…)/ Ma noi, donne italiche,/ cinte di ferro il seno,/ sul fumido terreno/ sempre vedrai pugnar» (Attila, 1846). E quando finalmente anche i divi che infiammavano gli animi sulla scena cominciarono a diventare pure coraggiosi patrocinatori delle volontà unificatrice ed indipendentista (tra di essi, Giulia Grisi e Mario, compagni nella vita, e Giuditta Pasta), e la musica italiana iniziava, con il terrigno bussetano, ad essere considerata combattivamente virile, dopo il 1861 gli animi sbollirono e la funzione del melodramma di creare un’identità comune svanì, complici lo stupore da parte dei governanti di scoprirsi a capo di un paese povero ed arretrato e la scelta da parte del neonato Stato di tagliare drasticamente i fondi pubblici destinati all’opera (quest’ultimo passaggio ci ricorda forse qualcosa?).
Il persistere ancora oggi di questa situazione, che si concretizza nella mancanza di fiducia – spesso ingenerata da mera ignoranza – nel guardare al nostro immenso patrimonio musicale come ad una fonte d’arricchimento intellettuale, morale e civico, nonché, ovviamente, economico, nel progressivo abbandono dell’insegnamento della musica nei cicli scolastici primari e, più latamente, in uno Stato ruffiano e lazzarone che è contemporaneamente specchio e propulsione della società, ci fa affermare che sì, «l’Italia s’è desta», ma davvero per breve tempo. Tornerà a farlo, prima o poi?
O Patria Mia | Simonetta Chiappini | ed. Le Lettere, Firenze
La ringrazio!
Quale miglior complimento che ricevere i complimenti da parte dell’autrice stessa del libro? Sono stata attenta nella disamina del testo anche sulla scorta della passione che sempre mi muove nei confronti dell’evoluzione della vocalità nell’Ottocento e del fatto che molte riflessioni che porta a condurre il suo saggio sono terribilmente attuali.
I miei saluti più cordiali
Mi pare una recensione attenta, grazie e complimenti all’autrice, da parte dell’autrice