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Opera • Al Regio di Torino la convincente lettura dell’opera mozartiana del noto barocchista. Non memorabile la regia di Michele Placido
di Attilio Piovano
C ’era attesa a Torino, l’altra sera, venerdì 15 febbraio, per il mozartiano Don Giovanni, in cartellone al Regio, e non tanto per l’allestimento (si tratta della regia di Michele Placido già vista nel corso della stagione 2004/05, regia ormai vistosamente invecchiata) quanto per la direzione affidata a un barocchista di chiara fede, quantomeno così lo si è soliti etichettare, vale a dire il britannico Christopher Hogwood. Beninteso formule giornalistiche ed etichette stereotipate spesso stanno strette: nel caso di Hogwood a maggior ragione, dacché è un musicista a 360 gradi. Non a caso a Torino in anni recenti ha diretto l’OSNRai in un capolavoro come la mendelssohniana Lobgesang e così pure il Requiem di Mozart (primavera 2010). Direttore e musicologo, clavicembalista e filologo, autore di importanti revisioni critiche, costantemente attento alla partitura, dato imprescindibile dal quale ogni musicista dovrebbe partire (per il Requiem ad esempio scelse la versione di Richard Maunder, in luogo del convenzionale completamento di Süssmayr), Hoogwood per questo suo debutto al Regio s’è confrontato con la più pre-romantica delle opere del salisburghese, la più demoniaca. Partitura con la quale il giovanissimo Hogwood aveva affrontato la sua prima importante produzione operistica, a Saint Louis nel Missouri. Già dall’ouverture la sua mano esperta ha impresso tempi, fraseggi e, più ancora, un ‘suono’ che mira a restituire al capolavoro mozartiano il suo giusto carattere, spogliandola da quelle incrostazioni romantiche che spesso le sono state appioppate in maniera più o meno indebita. Un suono nitido (l’orchestra per l’occasione, potendo contare sulla tecnologia del Regio, suona sì in buca, ma rialzata, con effetto acusticamente rilevante, da notare anche la presenza del fortepiano, affidato a Carlo Caputo, in luogo del clavicembalo), un suono passato attraverso l’esperienza dell’integrale delle Sinfonie di Mozart che Hogwood ha inciso.
Ben assecondato dall’orchestra che ha fornito una prova eccellente, per chiarezza, bellezza di suono e pulizia di fraseggi (bene anche i complessi in palcoscenico), Hogwood ha regalato istanti di emozione, ad esempio nei due magistrali e superbi finali d’atto, imprimendo ritmi per lo più assai sciolti ed aitanti; e se gli strumentisti lo hanno seguito docilmente, al contrario solisti e coro in più d’un caso (quanto meno la sera della prima) hanno mostrato qualche esitazione e incertezza, con inevitabili piccoli scollamenti (vistoso, in «Giovinette che fate all’amore», atto I, scena VII, col coro delle contadine). Opera difficile, si sa, il Don Giovanni, per la compresenza di aspetti giocosi ed altri drammatici. Opera sublime ed inquietante, giocata su più piani che non sempre all’atto della messa in scena riescono a fondersi al meglio. Buono il cast, anche se per la verità dal baritono Carlos Álvarez ci si sarebbe aspettati qualche brivido in più, sia vocalmente, sia quanto a recitazione: un Don Giovanni il suo piuttosto misurato, a tratti fin troppo, un Don Giovanni che non giganteggia per spavalderia, né per possanza. Buona la prova del basso Carlo Lepore nei panni di Leporello, alter ego di Giovanni Tenorio, fin dall’iniziale e proverbiale «Notte e giorno faticar» ha strappato applausi convinti, soprattutto, ma non solo, nella celeberrima ‘aria del catalogo’, senza peraltro indulgere in gigionismi inutili o in eccessi. Eva Mei (soprano di vasta esperienza, assai amata dal pubblico) s’è posta correttamente nei panni di Donna Anna: una Donna Anna desolatamente mesta la sua, ed inconsolabile, convincente vocalmente, un po’ meno sul piano scenico. Bel timbro e tecnica sicura, ma al contrario di altre volte, l’è mancato quel quid di magnetismo in grado di trascinare il pubblico alle stelle, verosimilmente mortificata da una regia sciagurata.

Per contro la fascinosa Carmela Remigio, soprano versatile, ha offerto di Donna Elvira una visione forse perfino troppo a tinte forti, esagerandone il livore e il risentimento, con toni a tratti esagitati. Vocalmente è piaciuta ed ha ottenuto meritati applausi dal pur freddo e mediamente compassato pubblico delle ‘prime’ (pochi i consensi a scena aperta, ma alla fine successo pieno per lo spettacolo). Valida la Zerlina di Rocío Ignacio, soprano andaluso come Carlos Álvarez. Per la verità la si sarebbe voluta più volubile, capricciosa, ammiccante: è parsa anch’ella molto misurata, ma pur convincente (potevano starci un po’ più di sfumature in «Batti batti bel Masetto» e pazienza). Benino il Masetto del baritono Federico Longhi anche se, a dire il vero, un po’ troppo impacciato, in bilico tra sdegno e intenerimenti. Non doveva essere in serata invece il pur valido tenore Tomislav Muzek che nel ruolo di Don Ottavio è parso talora un poco in difficoltà. Dal basso José Antonio García poi (dal fisico imponente, ma dal timbro cupo e ‘ingolato’) nel ruolo del Commendatore ci si sarebbe aspettati una ‘voce’ possente, austera e ieratica comme il faut, tale da far intuire il tremore dell’inferno, cosa che invece non è accaduta. Bene il coro nei finali d’atto (istruito da Claudio Fenoglio).
E siamo alla niente affatto memorabile regia di Michele Placido, ora ripresa da Vittorio Borrelli, con le scene per lo più scure e i costumi un poco eclettici di Maurizio Balò, dove a prevalere sono una certa cupezza e un grigiore di fondo a cominciare dalla pesante cortina nera e oro di gattopardesca memoria, spesso semichiusa, salvo un prevedibile rosso fuoco per la scena ‘infernale’. Alcune cadute di gusto già ravvisate in tale allestimento: ad esempio quella statua del Commendatore che pare un angiolone più adatto a Tosca che al Don Giovanni, ma quando muove meccanicamente le ‘ali’ più che tremenda risulta risibile, e così pure Don Giovanni abbarbicato che s’inabissa col movimento regolare e meccanico dei ponti mobili del Regio. E le caligini del cimitero, più alba lattescente che finale demoniaco. Troppo macchiettistici e caricaturali i movimenti delle masse che si muovono in maniera goffa, nella scena del ballo, in chiusura dell’atto I, quasi sabba da avanspettacolo. E quei riferimenti alla Sicilia primo ‘900 che lasciavano perplessi già anni fa ed ora paiono ancor più banali nella loro ovvietà (e non sono solo le agavi) a partire dal lenzuolo steso, allusivo ad ancestrali ritualità legate ad una sessualità per così dire mediterranea. Insomma un Don Giovanni a due velocità, da valutare su due piani: l’uno, quello musicale, specie strumentale, di ottimo conio, l’altro, quello dell’impianto scenico e registico, non certo accattivante. Repliche sino al 24 febbraio e due i cast impegnati.
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