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Concerti • Händel e Mozart in programma per la serata milanese, alla quale ha partecipato anche il soprano Marina Rebeka, svoltasi come un’accademia d’altri tempi tra scelte intelligenti ed entusiasmo contagioso
di Luca Chierici
Serata felicissima, quella che si è svolta nel contesto della stagione dell’Orchestra Filarmonica della Scala, tutta dedicata a Händel e a Mozart, ossia a due musicisti che per definizione ci fanno dimenticare le meschinità quotidiane per proiettarci in un’epoca in cui contrasti e passioni, amori e gelosie venivano come trasfigurati attraverso un messaggio musicale che alla fine approdava spesso a un traguardo di serenità e di risoluzione dei conflitti. Ottavio Dantone, artista del quale non si possono che tessere elogi e qui nelle vesti di direttore, organista e pianista, aveva organizzato una vera e propria Accademia, ossia una manifestazione antesignana del moderno concerto, con una spiccata predilezione verso un programma estremamente vario dal punto di vista della tipologia dei numeri eseguiti, accomunati dalla presenza di un particolare musicista o solista.
La presenza del soprano Marina Rebeka rappresentava uno dei punti fermi di questa Accademia e a lei sono state affidate due magnifiche arie tratte da Rinaldo e da Alcina, capolavori sull’importanza dei quali non è certo necessario insistere. Ma ancor più che in Händel – peraltro non evocato attraverso momenti vocali particolarmente caratterizzati da un virtuosismo funambolico – la qualità della voce e il temperamento del soprano lettone ci sono sembrati ancora più adatti a definire il miracoloso connubio tra soavità espressiva e alta dottrina musicale che è proprio del mozartiano Recitativo e aria da concerto «Ch’io mi scordi di te», magistralmente sostenuto dallo stesso Dantone nella parte di pianoforte obbligato. Una voce dal timbro pastoso e suadente, quella della Rebeka, che le ha già permesso di riscuotere successi come Donna Anna nel Don Giovanni e che speriamo poter riascoltare presto in teatro.
Dantone è stato a propria volta protagonista nel Concerto in fa maggiore di Händel, dove il suono dell’organo positivo contribuiva a ricreare un’atmosfera barocca che raramente si ascolta alla Scala: la vivacità irrefrenabile di certi attacchi delle fughe del “caro Sassone” è uno degli elementi che ci fanno rimpiangere la scarsa presenza di questa musica nell’attuale panorama teatrale e concertistico italiano e ci costringe spesso a rivolgerci all’estero per attingere a esecuzioni moderne di un autore che rappresenta davvero la figura complementare a quella del molto più eseguito Johann Sebastian.
In questo repertorio, cui si era aggiunta la Sinfonia K 45 di un Mozart appena dodicenne e la più nota Sinfonia “Praga”, Dantone ha utilizzato un approccio intelligente nei confronti delle molto discusse questioni filologiche, ossia la scelta di un organico solo in parte costituito da strumenti d’epoca (le trombe naturali, un fagotto, la testa in cuoio delle bacchette del timpano) e di un suono degli archi che ovviamente non ammetteva il vibrato che in minima parte. È una scelta che permette di ascoltare dettagli di fraseggio che vengono completamente persi – o meglio “annegati” – qualora si ricorra a strumenti tradizionali. Queste varianti timbriche costituivano poi il substrato per una lettura sempre piena di fantasia, con frequenti abbellimenti nei ritornelli, un fraseggio serrato che non era mai meccanico e poco espressivo (come spesso ci è capitato di ascoltare in altri casi). Ma è stato soprattutto il contagioso entusiasmo, il furore di Ottavio Dantone a trasformare per una sera la Filarmonica della Scala in un’orchestra barocca. A guardarlo impegnato nella Sinfonia K 504, nell’ascoltare quella musica così coinvolgente, si era naturalmente portati a pensare che il divino Amadeus dirigesse proprio così.
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