
Opera • Un primo sguardo sulla 76ma edizione del Festival: tagli di budget e forfait di gruppo accanto a nuove rivelazioni e benvenute riprese
di Francesco Lora
DON CARLO – La storia recente del Maggio Musicale Fiorentino, il più importante e antico festival musicale italiano, è anche storia di spettacoli morti in grembo: la disparità tra la lungimiranza delle direzioni artistiche e l’acrobatico bilancio della Fondazione lirica ha spesso portato all’entusiasmo e poi alla delusione di fronte a locandine pubblicate e quindi cancellate. Nell’agenda di chi scrive si leggono ancora, sotto una barra che li annulla, i titoli di spettacoli attesi e mancati: The Turn of the Screw di Britten nel 2005; Salome di Strauss e Nos di Šostakovič nel 2006; Jeanne d’Arc au bûcher di Honegger nel 2008; Macbeth di Verdi, La Bellezza ravveduta nel trionfo del Tempo e del Disinganno di Handel e Billy Budd di Britten nel 2009; per tacere di una matassa di recite e concerti saltati tra uno sciopero e l’altro (si pensi a Die Frau ohne Schatten di Strauss: solo due recite su quattro nel 2010).
Nella sua difficile navigazione attuale, la Fondazione è riuscita a salvare quasi per intero la 76ma edizione del Festival, persin aumentando il numero di alzate di sipario previste all’inizio, ma agendo incisivamente all’interno delle locandine già presentate, e spesso dirottando l’idea originale e riducendone la portata. È un gran peccato che a far le spese artistiche di questo assestamento economico sia stato in primo luogo la produzione inaugurale, ossia quella del Don Carlo di Verdi (versione italiana in cinque atti; Teatro Comunale, 2-12 maggio): doveva esserci un nuovo allestimento con regia di Luca Ronconi – quasi un regalo per gli ottant’anni di questo principe del teatro – e scene e costumi di Tiziano Santi e Jacques Reynaud; ma questo spettacolo di eclatante richiamo è stato commutato in quattro esecuzioni in forma di concerto, innescando una serie di aspetti critici sui quali val la pena di meditare.
Il problema è che ogni aspetto musicale ha evidenziato la vedovanza rispetto al corrispettivo scenico. È un problema che riguarda il titolo in sé: innumerevoli sono, nel Don Carlo, i momenti dove l’azione scorre solo attraverso il gesto, o dove la musica è tutta ai piedi di una pantomima, o dove gli spazi della scena dettano posizione e provenienza della musica; dove, insomma, il musicista segue il giusto cammino appoggiandosi a ciò che l’occhio vede: se nessun biglietto viene fisicamente passato da Posa a Elisabetta, se Elisabetta e Filippo II non attraversano la scena nel tramezzo di «Dio, che nell’alma infondere» (raddoppiando lo sgomento), se la banda di palcoscenico non contrasta a dovere con l’orchestra elevata dalla buca al palcoscenico stesso, e se nell’autodafé e nella sommossa il coro interviene non festoso o tumultuante, dinamico e rimischiato, ma immobile e diviso nelle sue quattro sezioni, soprani in basso a sinistra e bassi in alto a destra sui loro scranni, ecco, se tutto questo accade, il musicista stesso ne esce disorientato e incapace di farsi mediatore presso il pubblico.
Grave è l’impatto sulla compagnia di canto, evidentemente assemblata con un occhio al physique du rôle, e che limitata alla sola parte uditiva rivela più mende che pregi. Come protagonista, Massimo Giordano avrebbe potuto ben raffigurare, nella presenza e nel canto, l’instabilità emotiva dell’infante di Spagna; ma al pettine viene solo un’estrema evanescenza di emissione di timbro, quasi che un personaggio ricreato per Tamagno possa divenire più leggero di un Nemorino. Le promesse del soprano Kristin Lewis, vellutata black voice, ci avevano a suo tempo riempito di speranza: ma se altre volte il gesto aveva completato l’interpretazione, in questa sua Elisabetta emerge la povertà di espressione e modulazione, nonché le lacune tecniche, con quell’intonazione avventurosa e quei fiati presi e spezzati un po’ ovunque. Posti dietro l’orchestra, a buona distanza dal boccascena, i cantanti soffrono assai nella secca acustica del Comunale: soffre in particolare Gabriele Viviani, un Posa tutto preso dal proiettare la voce oltre la barriera sinfonica, e nondimeno afflitto da emissione fibrosa e ingolata; non se ne preoccupa più Paata Burchuladze, un Grande Inquisitore che già dieci anni fa pareva maturo per la pensione e che aggiunge ora ai modi barbari un canto pericolante; non ha ragione di preoccuparsene Ekaterina Gubanova, che come Eboli ha dalla sua il fascino timbrico e la sfacciata opulenza vocale tipica delle belle voci slave. Oltre le note, nessuno dei predetti riesce ad animare un personaggio, quale che sia.
C’è la sola eccezione dell’ucraino Dmitry Beloselskiy: come egli la intona, la parte ha più i colori e gli affetti del Dosifej di Musorgskij che quelli del Filippo II di Verdi; ma il fraseggio è accurato quanto quello di un liederista, l’espressione è tanto studiata quanto varia, il cantante non concede mai sconti all’attore; in definitiva, il personaggio attende ancora di essere messo a fuoco, ma un personaggio lo è già, eccome, e guarda già negli occhi una delle più colossali dramatis personae che il teatro d’opera annoveri. E oltre i cantanti? Quasi ci si dimentica di Zubin Mehta, che nel 2004 aveva diretto a Firenze un Don Carlo virtuosistico oltre ogni immaginazione, ove ogni alchimia sinfonica subito sublimava in teatralità: allora ci si accapigliava per trovare un biglietto, mentre ora il teatro è quasi deserto; senza regia, scene e costumi, e col suo pubblico disilluso e dimidiato, il Maestro stesso sembra ripiegarsi e perdere la fervida ispirazione narrativa di allora. Lo sorregge amorevolmente, però, la superlativa qualità tecnica di Orchestra e Coro del MMF: se il secondo ha pochi eguali per sfarzo timbrico e carattere perentorio, la prima ci fa credere a ogni battuta – quei corni, quei legni, quei violini! – di essere a tu per tu con i Wiener Philharmoniker o con la Staatskapelle di Dresda. Con in più i colori di Verdi.
MESSA DI REQUIEM – Lo sfarzo dei complessi del MMF rifulge ancor meglio nel secondo omaggio che il Festival ha rivolto a Verdi, con l’esecuzione della Messa di Requiem (Teatro Comunale, 16 maggio). È stato uno dei più struggenti concerti ascoltati a Firenze negli ultimi anni, a dispetto degli astri nefasti che si erano allineati su di esso: nell’ordine, il forfait del direttore Daniel Barenboim, quello del soprano Anna Samuil e quello del tenore Johan Botha. Mentre essi venivano meno uno dopo l’altro, accorreva l’infaticabile Mehta a prendere il posto del direttore amico, e accorrevano due sostituti di fortuna in luogo dei cantanti. Non sarebbe potuto andare meglio: davanti al suo teatro pieno, Mehta è tornato a officiare la musica di Verdi da par suo, scatenando un’iradiddio hollywoodiana nella Sequenza – declinata nel kolossal, a nessuno riesce meglio a che lui – e nel contempo sollecitando indugi, sfumature e rubati nel duettare di soprano e contralto, o pie opalescenze tardottocentesche nel canto dell’Ingemisco. Ecco il grande concertatore, il grande direttore, il grande narratore, adorato dai suoi musicisti e dal pubblico fiorentino, e colto in una delle sue più attente collaborazioni con i solisti di canto.
Alla fine, chi ha deluso è stato il diamante nero del quartetto vocale, il basso tedesco René Pape, per ascoltare il quale si era mobilitata una buona fetta dell’uditorio: limitato da un canto borbottante, chioccio, avaro di smalto, e trovatosi lontano dal suo Wagner d’elezione, manca a lui la nobile cavata del canto all’italiana, l’ampleur retorica di chi sta restituendo in musica concetti mortali e ultramortali, nonché semplicemente l’esattezza di pronuncia del latino romano (veri orrori fonetici, degni di un grammelot: le s sorde divengono sonore, i qu– divengono cv-). Ancora una volta, la cartina al tornasole di una vocalità senza ostacoli era la Gubanova, qui portata a ostentare un registro grave di esuberanza contraltile, ma accorta nel sottrarsi a ogni istrionismo, nell’assecondare le volontà del podio e nel seguire docilmente il soprano nei passi a intervalli paralleli. Voce non troppo squillante ma di franco timbro maschio e latino, e dunque benvenuta, è quella del tenore Pietro Berrugi, assai attivo all’estero e degno di una più attenta considerazione anche in patria.
Una scoperta formidabile, infine, è stata quella del soprano sostituto; formidabile e provvidenziale, aggiungeremmo, dopo aver ascoltato la rinunciataria Samuil, esibitasi di lì a due giorni alla Scala come asprigna Gutrune nella Götterdämmerung di Wagner. Chi conosce Julianna Di Giacomo, formosa signora californiana? Da oggi sarà una colpa non tenerla d’occhio: nella Messa di Requiem le è bastato aprir bocca per imporre un canto tanto lirico e immacolato di linea quanto solido di peso e tecnica, e perentorio di dizione e accento. È curioso ritrovarsi a proseguire per lei il discorso già fatto intorno al Don Carlo: nel Requiem di Verdi non ci sono personaggi, eppure ella vi anima, con immediata compiutezza, l’ennesimo personaggio del teatro verdiano, mobilissimo nei suoi affetti ad ogni sollecitazione verbale o musicale. Giunta alla stretta finale del Libera me, la Di Giacomo vi fa galleggiare lunghe frasi cantabili, su quel vero pianissimo che non è rifugio delle voci tecnicamente sprovvedute, ma che si espande nella sala con uniformità di timbro e pienezza di vibrazione; scambia poi fervore e commozione con un coro al più alto strato di coinvolgimento emotivo; vola infine a un Do sopracuto capace di svettare sopra un’orchestra e un coro serrati e armati quanto una falange macedone, e declama il suo ultimo versetto con un pudore e una genuinità d’altri tempi. Una gioia.

THE RAPE OF LUCRETIA– Nel marzo scorso Il Corriere musicale ha dato conto delle recite di The Rape of Lucretia, allestito a Ravenna e Reggio Emilia nel centenario della nascita di Benjamin Britten. Si trattava della ripresa di uno spettacolo concepito nel 2000 dal Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, per il raccolto spazio del Teatro Goldoni: una bomboniera ideale per i Liederabend e per l’opera barocca e da camera. Poche settimane dopo le recite ravennati e reggiane, lo spettacolo è stato ripreso tale e quale, quasi là si fosse trattato di una ghiotta anteprima, nel Goldoni stesso e nell’ambito del Festival fiorentino. Inutile ripetere quanto già detto, ma qualcosa val la pena di ribadire o di integrare, sulle tracce di un allestimento tra i più affascinanti degli ultimi lustri.
Si tratta, innanzitutto, della regia operistica forse la meglio riuscita di Daniele Abbado, per chiarezza di enunciato, profondità di analisi e bellezza di immagini, ove le essenziali scene, costumi e luci di Gianni Carluccio, oltre che i video di Luca Scarzella e i movimenti coreografici di Daniela Schiavone, giocano un ruolo perfettamente integrato e di prima sfera: cosa rara e ammirevole, tutto vi riesce intelligibile per il pubblico, traghettando il testo verbale e musicale alla meditazione storica ed estetica non meno che etica. Piace poi evidenziare come, di ripresa in ripresa, lo spettacolo sia stato in grado di rigenerarsi senza perdere un’oncia della sua efficacia: il fatto è scabroso e obbligato, e dunque non scontato, poiché il riassortimento degli interpreti, spesso ritratti nei video, comporta a ogni nuova occasione il rifacimento dei video stessi, e la rimodulazione della drammaturgia su attori differenti. In ultimo, piace il ritorno dell’allestimento nel luogo per il quale era stato ideato, a ribadire il valore del MMF e la longevità delle sue proposte, per sei applaudite recite (17-25 maggio).
Come a Ravenna e Reggio Emilia, lo specialista Jonathan Webb ha diretto scaltriti elementi dell’Orchestra del MMF, e due compagnie di canto tra loro alternate. A proposito di queste ultime, Il Corriere musicale ha già commentato la seconda, mentre si può ora fare altrettanto per la prima. A incorniciarla vi sono i due ruoli “corali”, sostenuti da Gordon Gietz e da Susannah Glanville: la coppia è distinta per omogeneità, grazie all’asciutta incisività di entrambi gli interpreti, sobri fino allo stoicismo nella linea vocale tenuta e solleciti piuttosto nella vivida articolazione della parola. Ciò ha dato luogo a un contrasto ideale con la Lucretia di Julianne Young e col Tarquinius di Jacques Imbrailo, caratterizzati da una trascinante presenza scenica e da una bruciante sensualità timbrica ed espressiva, sia pure diretta verso la rappresentazione della fermezza eroica nel primo caso e verso quella della lussuria tirannica nel secondo. Eccellente il comprimariato, a conferma di una selezione accurata e di un lavoro di squadra dove nessuno si accontenta di un impegno minore: Thomas Tatzl (un accorato Collatinus), Philip Smith (un incisivo Junius), Gabriella Sborgi (una materna Bianca) e Laura Catrani (una fresca Lucia).
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