Concerti • Al Lingotto di Torino il pianista ha interpretato due concerti beethoveniani nella doppia vesta di solista e direttore
di Attilio Piovano
Felice conclusione di stagione per i Concerti di Lingotto Musica, a Torino, presso l’Auditorium Agnelli di via Nizza, progettato da Renzo Piano: conclusione, la sera di domenica 19 maggio, a pochi giorni dall’annunciata conferenza stampa di presentazione della stagione 2013/2014 che, ancora una volta – ne siamo certi – presenterà non poche piacevoli sorprese. Sul palco del Lingotto è ricomparsa la Mahler Chamber Orchestra che (lo si ricorda) già lo scorso ottobre era stata inclusa in cartellone (con la direzione di Harding). La MCO è passata da Torino, per la gioia dei musicofili, nel bel mezzo della tournée di inverno-primavera che s’è aperta in gennaio (a Vienna) ed ha già toccato, con programmi differenziati e svariati solisti, Berlino, Lussemburgo, Baden, Monaco, Innsbruck, Salisburgo, Dortmund, Essen, Colonia quindi in marzo via verso Alicante, Barcellona, Bilbao, Lisbona e Madrid e poi Ferrara in aprile con Abbado, quindi Parigi e Bayreuth, in maggio ancora Berlino, poi incursione italiana a Pavia e Torino, per l’appunto, prima di proseguire per Praga, Bergen e via elencando, giù giù sino all’Australia e al Giappone.
A Torino era atteso, nella doppia veste di direttore e pianista, il norvegese Leif Ove Andsnes che altre volte abbiamo ammirato e apprezzato, tuttavia, per ragioni di famiglia, ha dato forfait praticamente all’ultimo (tant’è che in programma di sala compare la sua bio). Lo ha sostituito davvero da par suo un Alexander Lonquich in forma smagliante come non mai: tra l’altro – cosa non da poco e niente affatto scontata in questo casi – mantenendo del tutto inalterato il programma previsto. Programma oltremodo interessante e stimolante per l’accostamento niente affatto banale, vale a dire: di Stravinskij il neoclassico Concerto per archi in re che ha permesso ancora una volta di ammirare subito la pasta preziosa della MCO, pagina seguita dal Secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven (l’op. 19 in re maggiore). Poi in seconda parte di serata ecco la vetrina dei superlativi fiati impegnati con l’Ottetto (ça va sans dire ancora di Stravinskij), a seguire il sublime Quarto Concerto beethoveniano: insomma, per la serie Stravinskij versus Beethoven 2 a 2, in rigorosa condizione di par condicio. Al di là delle battute, di scelta quanto mai opportuna s’è trattato, dacché ha consentito di porre in luce in maniera mirata (e per così dire analitica) le potenzialità delle singole sezioni orchestrali.
Quanto a Stravinskij molto bene il colore neoclassico conferito al Concerto in re (1946), dalle riconoscibili assonanze con l’Apollon Musagète (soprattutto, ma non solo), bene per chiarezza di atmosfere, incisività, precisione dei ritmi e perfezione assoluta dell’insieme: nonché per aver saputo restituire quel che di legnoso e angoloso della spoglia e pur elegantissima partitura, entro una veste di impagabile concisione (raramente si trovano pagine dalla misura così perfetta) e dall’innegabile charme. E se gli archi della MCO possiedono un bel timbro e un amalgama di puro conio (ammirevole la cantabilità dell’Arioso centrale memore delle atmosfere affettuose e partecipi di Le baiser de la fée prima del moto perpetuo del finale Rondò), ecco che i fiati non sono certo da meno. Dell’Ottetto hanno saputo porre in rilievo i tratti smagati, il «tono scanzonato e spericolato» che obiettivamente caratterizza questa bella pagina antecedente una ventina d’anni il Concerto in re.
Anche in questo caso l’aplomb ritmico è risultato perfetto, bene l’amalgama di suoni, bene anche l’evidenza dei singoli timbri; non solo, le ottime prime parti della MCO hanno anche saputo attenuare qualche (lieve) ridondanza che, ci sia concesso (absit injuria verbis) l’Ottetto possiede. Stiamo pur sempre parlando di un capolavoro di architettura, un miracolo di geometria sonora, vero e proprio concentrato di musica al quadrato, con quelle allusioni al passato, rivisitato con occhio intelligente, distaccato e pur partecipe e nel contempo quelle atmosfere cubiste, incluse allusioni all’universo del jazz, come nella miglior tradizione parigina anni ’20, giù giù sino allo stupore della chiusa del Rondò, con quei magici accordi come ‘in sospensione’, a suggellare inaspettatamente un capolavoro dove c’è spazio per strizzatine d’occhio al periodo dell’impressionismo franco-russo (dall’Uccello di fuoco in avanti), humour, atmosfere grottesche, un uso sopraffino del contrappunto, una sensibilità timbrica a dir poco strepitosa, sana joie de vivre e molto altro ancora. Tutti elementi balzati dinanzi agli occhi l’altra sera nell’esecuzione delle ottime prime parti della MCO.
Che ha poi dato una doppia e superba prova in Beethoven con il fuoriclasse Lonquich. Del quale occorrerebbe tessere l’elogio lungamente, ma ci parrebbe quasi un parziale doppione della recensione a lui dedicata in occasione dell’integrale dei cinque concerti beethoveniani ascoltati proprio a Torino in un concerto targato UM, nell’ottobre del 2011 unitamente all’Orchestra da Camera di Mantova, recensione apparsa su queste colonne e alla quale volentieri rimandiamo per le considerazioni stilistiche sulle opzioni interpretative di Lonquich.
E allora poche note soltanto, spigolando dagli appunti di ascolto, in spirito di condivisione col lettore. Da rilevare (oltre ad una tecnica solidissima e una varietà di tocco eccezionale) il colore parzialmente settecentesco conferito all’op. 19 (ma attenzione, nessun antiquariato da filologi esasperati, al contrario, dando evidenza davvero unica a certi passi fugati, ovvero con l’occhio già proiettato verso i futuri sviluppi del pensiero beethoveniano) e allora ecco le arguzie del finale e le cadenze, soprattutto, dove Lonquich – vera lezione di stile – fa intuire immediatamente i punti di approdo di Beethoven. E del Quarto fornisce un’interpretazione affettuosa e dolcissima, dove occorre (certi passi lunari e onirici che ne costituiscono il vanto e la mirifica novità), ma anche vigorosi passaggi e corposi tutti del solista (come nella ripresa del tema iniziale col raddoppio accordale) che giganteggia fronteggiando a testa alta la massa dell’orchestra. E che poesia nel sublime tempo centrale con quella contrapposizione tra le furie degli archi ed il cantabile del solo, novello Orfeo, e poi il delirante passo pre-impressionistico, poco prima della fine. E ancora quei tratti da glockenspiel in cui il solista pare accompagnare l’orchestra e si sente l’anticipazione del Quinto. Lonquich, artista dalla rara sensibilità, pone in rilievo tutto ciò e molto altro ancora, e ogni volta che lo si riascolta la materia pare rigenerarsi, mille dettagli s’illuminano di nuova luce, beninteso assecondato meravigliosamente dall’orchestra ch’egli dirige davvero (non limitandosi come altri a pochi e vaghi cenni), sicché l’insieme è pressoché perfetto, non una smagliatura ritmica, non una esitazione, tutto in asse e tutto con una naturalezza prodigiosa.
E il bis? Beh ecco, dopo un simile impegno (due concerti nella stessa serata, non sono cosa da poco, anche se non si tratta di Rachmaninov…) altri solisti solitamente si limitano ad un brano di ridotta campitura, o addirittura si negano facendo spiritosamente ciao ciao con la manina o mimando il gesto dell’andare tutti a nanna, ovvero trascinano via l’orchestra prendendo il primo violino per mano. E invece Lonquich con una naturalezza incredibile s’è riseduto allo Steinway d’ordinanza annunciando l’intero finale del Primo Concerto beethoveniano: che ha poi interpretato a velocità sostenuta, riversandovi quello humour e quel brio che occorrono, con quei magici spostamenti d’accento per i passi più gigioni e scherzosi (compreso quello in stile di un samba in anticipo di un secolo e mezzo) trascinando l’orchestra intera in un’accensione a dir poco stupenda (evidenziando in maniera plateale e forse fin troppo effestistica – ma ci sta – quei passaggi un poco chiassosi da musica turchesca). Applausi vivissimi e ovazioni per tutti.
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